venerdì 19 dicembre 2014

Salomon Resnik: Un dialogo insolito


Un foglio bianco, essenziale, piegato in quattro, il carattere delle scritte è un  Comic Sans, l’indirizzo 8 kislev 5775, Sala Montefiore, Centro di studi ebraici, Venezia.
La sua voce compone un tessuto multiforme di lingue, italiano, francese, tedesco, yiddish, spagnolo, i suoi racconti un arazzo di volti, libri, viaggi, città:
"Sono nato nel 1920 a Buenos Aires, in un quartiere di immigrati, figlio di ebrei russi ucraini di tradizione askenazita originari di Odessa. Da piccolo andavo nella sinagoga per ascoltare mio padre che cantava nel coro, avevo circa dieci anni, e mi ricordo che tutti, arrivati a un certo punto, chiudevano  gli occhi, e la persona vicino a me diceva che sarei diventato cieco se avessi guardato ... guardai lo stesso, vidi le mani del celebrante che si levavano verso l’alto simili a quelle ossute dei disegni di Egon Schiele".

Uno dei maggiori studiosi del pensiero di Sigmund Freud, psicoanalista e psichiatra, con studio a Saint Germain des Prés, e a Venezia dalle parti delle Fondamenta degli Incurabili, Salomon Resnik parla del sacro: "André Breton affermava che non bisogna confondere i libri che portiamo in viaggio con quelli che ci fanno viaggiare ... il sentimento di sacralità è un aspetto fondante della natura umana che ci fa viaggiare nel tempo.
Heidegger interpretando Hölderlin identifica la natura stessa con il sacro, e considera il sacro come la radice del destino degli uomini e degli dei.
Rudolf Otto parla del fascinoso e del tremendo che richiama l’Unheimiche di Freud, il perturbante, l’inquiétante étrangeté.
Il sacro si manifesta con un evento o fenomeno extranaturale che fa irruzione e sovverte il quadro familiare, entra nello spazio-tempo della quotidianità come una sorta di realtà fantastica, inattesa e quindi inquietante.
Per Durkheim, il sentimento del sacro è legato alle fasi elementari della religiosità; Lévi-Strauss nei suoi studi si sofferma sui riti di morte e rinascita che accompagnano ogni esperienza elaborata: esiste sempre ansietà e paura nell’entrare in contatto con una storia nuova.
L’uomo nasce religioso. Affascinato dalla magia dell’esistere, si mostra preoccupato e timoroso dell’inatteso e dell’incomprensibile, si confronta con l’estraneo, l’uscita dalla routine. D’altra parte l’uomo che vive nella ripetizione routinaria perde l’occasione di cogliere la realtà nascosta, a volte troppo evidente per essere vista.
Per me la vita è ricerca, avventura, poiesis del divenire. La preoccupazione di salvaguardare l’aspetto avventuroso dell’esistenza ha alimentato il mio interesse per l’hazard objective, la ricerca  dell’inatteso, della visibilità dell’inconscio. A questo proposito racconto un curioso episodio. Di solito raggiungevo a piedi il mio studio in Rue Bonaparte a Saint Germain des Prés, ma solo dopo molti anni scoprii una casa con una targa che spiegava che lì era vissuto il famoso pittore Édouard Manet. Era lì da sempre, come mai non l’avevo notata?
Quello che è evidente non viene visto perché l’educazione, la cultura, non ci permettono di essere consapevoli di certi aspetti dell’uomo primitivo che abita in noi, dell’io bambino che non ha dimenticato di giocare e di avere per sé il segreto dell’insolito.
Homo sapiens e homo ludens convivono in noi. Le forze della natura costrinsero l’homo sapiens a cercare delle spiegazioni, provocarono la metapoiesis, l’entrata in scena dell’homo ludens, il bambino che gioca in noi di cui parla Vico.
Il termine religio deriva dal latino relegare, cioè collegare i miti in modo armonico per dare un senso alla realtà. L’uomo preistorico è giá religioso, è homo sapiens e ludens. Provo a trasmettere i sentimenti che mi ha risvegliato il contatto con le pitture rupestri delle grotte di Niaux risalenti all’epoca magdaleniana.
Una visita che per me è stata un rito iniziatico, la scoperta di una galleria d’arte preistorica. Varcata la soglia, passato dal presente alla preistoria, dalla luce al buio, mi ricordavo di Winnicot, uno dei miei maestri, che chiudeva gli occhi quando voleva evocare qualcosa di profondo. La guida annunciò l’entrata nella salle noir in una condizione postliminale, una torcia si accese e dietro di me scoprii dei meravigliosi cavalli e dei bisonti. Uno dei bisonti si avvicinò a me invitandomi a un dialogo insolito, un incontro con un altro tempo, e con l’ombra dell’autore dell’opera. Ebbi una sensazione di impatto affettivo, era la nascita di un dialogo intimo, della mia partecipazione all’inatteso. Sentii che la testa del bisonte e la sua morte mi guardavano, mi parlavano. Al di sotto delle figure, alcuni segni nitidi e dei piccoli punti, una sorta di scrittura che associai alle mie esperienze psicoanalitiche sulle forme geometriche del pensiero.
I colori oscillavano fra i toni dell’ocra rossa e gialla, ogni frase di quel quadro era per me chiara e viva, come le tracce di un’esperienza tragica e creativa.
Avevo l’impressione che il pittore preistorico trasmettesse a un animale quasi parente i suoi sentimenti di lutto depressivo, di morte. Aveva dovuto ucciderlo per sopravvivere e testimoniava i suoi sentimenti di lutto e rispetto verso una vita amica, verso quel bisonte triste. Sperimentavo, ma eravamo in due, una reverie, un sogno a occhi aperti alla luce della torcia, un’esperienza estetica del religioso.
Con un salto nel tempo mi rivedo partecipare con gioia alle feste ebraiche, ai matrimoni allietati dalla musica Kletz, nei quali io vecchio-bambino mi risveglio con meravigliose filastrocche, i balli, la musica...è l’homo ludens che dentro di noi non dimentica di giocare."
Una pioggia leggera mi accompagna alla stazione, è quasi mezzogiorno, nell’atrio un pianoforte è a disposizione dei viaggiatori, che possono meravigliarsi, curiosare, strimpellare, suonare, commentare, applaudire, giocare, incontrarsi, e a volte, imprevedibilmente, innamorarsi.
Note dalla giornata di studi Le forme del sacro, 30 novembre 2014, l'immagine ritrae uno dei bisonti della Cave de Niaux


Venezia, labirinto dell’anima
Intervista a Salomon Resnik
Scheda: Salomon Resnik, psichiatra e psicoanalista di fama internazionale, nasce a Buenos Aires il 1 aprile del 1920 da genitori ebrei originari di Odessa. Si forma a Londra con Melanie Klein, Rosenfeld, Bion, Esther Bick e Winnicot. E’ membro della International Psychoanalitical Association e presidente del Cispp, “Centro internazionale di studi psicodinamici della personalità” di Venezia che dal 1982 svolge attività di ricerca e formazione.
Autore di decine di pubblicazioni, fra cui i due volumi “Sul fantastico” per Boringhieri, relatore ai corsi di alta cultura della Fondazione Cini, Salomon Resnik ha da poco pubblicato “Le strutture corporee della vita” e “Glacial Times”.
Il 25 marzo a Venezia terrà la relazione “Storia e avvenire dell’inconscio”, nell’ambito del corso seminariale del Cispp “Il disagio della nostra civiltà”.

VENEZIA - C’è una gran nebbia a Londra. E’ una sera d’inverno del 1957. Nel quartiere di Hampstead un signore sulla quarantina cerca la casa di Melanie Klein. Vede una donna di spalle e le chiede:“Scusi, sa dove abita la signora Klein?”.Lei si volta e lo guarda sconcertata: è Anna Freud che sul transfert e sul narcisismo aveva idee ben diverse da quelle della sua collega.
Quel signore nella nebbia, invece, era Salomon Resnik, psichiatra e psicoanalista di fama internazionale che oggi alterna la sua attività tra Venezia e Parigi.
Il suo studio è dalle parti degli Incurabili, lungo la stretta Salizzada del forno. Tra pareti basse, molti libri contendono lo spazio ai quadri e le poltroncine della terapia di gruppo stanno strette una vicina all’altra.
Quando saluta inchina appena la testa, gli occhi sono sognanti, le frasi accompagnate da gesti misurati.
Salomon Resnik racconta per la prima volta la sua Venezia e gli effetti terapeutici che questa città può avere sul male di vivere. Quello che invece l’intervista non può trasmettere è la sua voce, un mosaico di accenti diversi che evocano le molte città in cui ha vissuto e le molte lingue straniere che conosce.

M. Un curatore d’anime che riceve i suoi pazienti vicino all’ex ospedale degli Incurabili. Un caso?
S. “La vita forse è incurabile” ci ricorda Artaud, nello stesso tempo è un continuo incontro con ciò che non conosciamo, “das Unheimliche”, come lo definiva Freud, il perturbante. Ma la maggior parte della gente fugge il perturbante, cerca rassicurazione nella routine, una ripetizione di comportamenti che non apre finestre di dialogo fra il mondo interno e quello esterno. Da qui la noia, “la nostalgia dell’identico” (la definizione è di Enesto De Martino ndr).
Il fatto che eserciti la mia professione agli Incurabili è un caso di “hazard objectif” avrebbe detto André Breton. A volte si scoprono nella realtà circostanze che coincidono con certe situazioni della vita. Il fatto che il mio studio si trovi agli Incurabili è un caso che viene associato liberamente da ognuno in relazione al suo stato d’animo.
In questo luogo, nel Cinquecento, si ricoveravano i malati di peste. Io comunque godo di una protezione speciale: di fronte alla mia casa c’è la statuetta di santa Rita che è la santa delle imprese impossibili.

M. Verso le fondamenta, a due passi da qui, c’è anche un altorilievo che rappresenta San Giorgio che uccide il drago.
S. Il drago - inteso come mostro, dal latino monstrum, prodigio, cosa straordinaria, "inconscia", che a un certo momento si mostra per “monere”, per avvertire - riconduce ad un tema interessante, quello del labirinto. Bisogna distinguere tra due tipi di labirinto, quello egiziano e quello cretese. Quello egiziano è legato al mito di Iside e Osiride, i fratelli sposi. Iside uccise e smembrò il corpo di Osiride, poi raccolse le parti divise, che rappresentavano le province dell’Egitto, e le ricompose formando un labirinto. Curare la schizofrenia o la psicosi è cercare di riunire le parti di una mente dispersa.
Il labirinto, cretese, invece, è costruito da Dedalo per celare il minotauro.In un’anfora greca, che ho scoperto nel museo di Taranto, un gruppo di giovani, come in una danza, si tiene la mano per trovare il mostro personificato dal proprio “minos” mascherato da “minos-tauro”. Ogni labirinto è il percorso di una danza, la danza delle gru o della signora dei labirinti: Arianna.
Ogni gruppo di terapia ricerca i suoi labirinti, i propri luoghi intimi, ogni riunione è una ricerca coreografica su sé stessi e sulla propria relazione con l'altro in una sequenza che diventerà normalmente rituale.
Nel gruppo cerco la storia che anticipa la storia, non la preistoria, ma la protostoria, ciò che è avvenuto all’origine. Questo per me è anche il senso della psicoanalisi: un’avventura in quello che è attuale e primario allo stesso tempo, cioè l’originario.

M.Un altro tema veneziano è quello della maschera.
S. Venezia è essa stessa una maschera. Ogni oggetto è una maschera. Il termine persona implica, significa maschera, la propria maschera. Anche il sogno è una maschera che, con tatto e rispetto nei confronti del paziente, non ha bisogno di essere smascherata. Questo è il fondamento dell'etica psicoanalitica. Nel sogno la maschera è l'aspetto manifesto di quello che è latente per Freud. Freud cercava la visibilità dell'inconscio oltre il sogno, invece io provo a scoprirlo nella lettura stessa del sogno-maschera, cioè attraverso quello che si mostra, ma che non tutti vedono: il phainòmenon.
Ognuno di noi porta la maschera che ha scelto inconsciamente ed essa dice della sua identità. Nella malattia, invece, la persona, per sfuggire al dispiacere di non essere quello che vorrebbe essere, costruisce nel delirio un personaggio incapace di provare emozioni. Un personaggio che occupa il posto della sua persona. Si tratta terapeuticamente di aiutarlo a ritornare a essere la persona che è, e ad abitare il proprio corpo e tollerarlo costruttivamente.

M. In che senso Venezia può essere definita una città terapeutica?
S. Perché richiama la solitudine. La maggior parte dei problemi psicologici è legata al narcisismo, cioè alla necessità di essere continuamente riconosciuti, di specchiarsi nelle parole e nello sguardo degli altri a qualsiasi costo, anche quello del proprio male di vivere. Il che non instaura una relazione adulta, ma una dipendenza. Chi non sopporta Venezia o ha paura di questa città, o semplicemente non si sente bene mentre la visita, probabilmente ha bisogno di riflettere sulle cause del suo malessere. I disagi, ovviamente, non sono provocati dalla città ma da quello che essa sottolinea. Per esempio, un mancato riconoscimento: di fronte a tanti capolavori e a tanta bellezza le identità deboli entrano in sofferenza.
La paura di attraversare i ponti potrebbe derivare da un problema con il padre, mentre la paura degli spazi aperti, o agorafobia, potrebbe riproporre il tema del distacco dalla figura materna.
Venezia ha effetti meno problematici per poeti, scrittori, artisti che hanno bisogno di entrare in contatto con sé stessi. La melanconia che l’infinita bellezza di questa città può dare per queste persone si trasforma in momento di tristezza vitale.

M. Perché, oltre che a Parigi, lei ha scelto di incontrare i suoi pazienti a Venezia?
S. Ho scelto Venezia perché è una città labirintica, mi piace andare incontro a quello che non conosco. Immagino Venezia come un corpo e ogni parte del corpo abitata dal suo daimon. Mi piace, a volte, passeggiare la notte da solo e dialogare con le figure e le statue che abitano le casa e i ponti, per continuare così le mie riflessioni sull’inconscio di una città anfibia, abitata dal vento e dal mare, che vive sopra e sotto l’acqua. Venezia, come scrive Savinio in “Ascolto il tuo cuore, città”, è una città di fantasmi. E visitare i fantasmi aiuta, come ci insegna Don Giovanni: invitato al tavolo dal convitato di pietra, può confrontarsi di fronte alla tomba del padre con la propria paternità”.
M. C’è un luogo a Venezia, oltre agli Incurabili, al quale si sente molto legato?
S. Il ghetto di Venezia. Ritrovo nel quartiere ebraico forme e tracce che parlano di rotture, di sofferenze, di un popolo in viaggio. La mia mente si interroga sul mio essere ebreo, figlio di immigrati russi in Argentina.
Uno degli stati d’animo dell’uomo è la reminiscenza, la ricerca nostalgica della stella assente. “Sidus”, che in latino significa stella, e “desiderare” hanno la stessa radice.

Mario Anton Orefice
(Corriere del Veneto, giugno 2006)

1 commento:

  1. Ho appena terminato la lettura di "Dostoevskij" di Zweig.
    Ho trovato tra queste pagine un capitolo intitolato "Il tormendo di Dio". Il grande scrittore russo ha detto: "Dio mi è sempre necessario perché è l'unico essere che si può amare sempre".

    E spiega Zweig: "... il Dio di Dostoevskij è il principio di ogni inquietudine. Eterno padre dei contrasti, è contemporaneamente il sì e il no. [...] il Dio di Dostoevskij è la scintilla irrequieta tra i poli elettrici degli eterni contrasti: non è un essere ma uno stato, uno stato di tensione, un processo di combustione del sentimento...".

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