domenica 22 aprile 2012

Veli da sposa e passioni rivoluzionarie

Tre donne di cultura araba, tre scrittrici, tre mondi, hanno parlato dei loro libri a Venezia nella tavola rotonda Sguardi di Donne del Mediterrano, durante la manifestazione Incroci di Civiltà. Cominciamo dall’ironia della farmacista egiziana Ghada Abdel Aal, che da qualche anno ha aperto un fortunatissimo e seguitissimo blog:  http://wanna-b-a-bride.blogspot.com (Voglio sposarmi). Post dopo post ha raccontato i buffi incontri organizzati dalla famiglia per farle incontrare un ragazzo da sposare, per combinare un matrimonio da salotto. Alle sue avventure si sono aggiunte quelle delle amiche e al successo del blog è seguita la pubblicazione del libro per un importante editore arabo e poi le edizioni in altre lingue; in Italia è uscito con il titolo Che il velo sia da sposa (Epoché). Con garbo e simpatia ha raccontato in inglese che la gente in Occidente spesso fa confusione fra donne afgane e donne egiziane, le chiedono se non si senta oppressa, o se può guidare la macchina, e altre sciocchezze del genere. “Le donne egiziane – ha detto – non sono meno oppresse di quelle italiane, anche loro sono impegnate ad affermarsi in campo professionale e a combattere contro pregiudizi maschilisti.” Questo è un brano dal suo uomoristico blog: “Comunque io non ce l'ho con Haytam, perché so di averlo ferito la volta che ho rifiutato la sua proposta di matrimonio, nonostante il ragazzo sia molto chic (viene a prendere l'immondizia con indosso abiti Versace, i capelli a spazzola e una mano sempre in tasca) e nonostante sia un tipo facoltoso (ha una B.M.V., cioè una Brutta Macchina Vecchia).
Ma è che la vena liberale e proletaria che è in me cozza contro la mia vena borghese, sofista e imperialista (aprite un dizionario qualsiasi e traducete voi, per favore. Adesso non ho tempo per spiegarvi!) e alla fine mi sono vista costretta, seppur con dispiacere, a rifiutare la sua proposta e il ragazzo deve averla presa male. Probabilmente ho urtato la sua sensibilità. Ed è per questo che, ogni volta che veniva a prendere l'immondizia da noi e mi vedeva passare davanti alla porta, mi guardava, faceva un bel respiro profondo e gridava con quanto fiato aveva in gola:
- Monneeeeezzaaaaaaa!!!
Io naturalmente non l'ho mai presa sul personale. Proprio per niente. Sapete che ho il cuore tenero! Anzi, gli ho sempre augurato ogni bene, finché il Buon Dio non gli ha concesso la grazia di farlo fidanzare con la ragioniera Nermin.”
Alawiya Sobh, invece, ha una scrittura intensa e passionale. Vive a Beirut e dirige la rivista femminile Snobì diffusa in tutto il mondo arabo, un magazine che parla di bellezza, vita di coppia, sesso, mondanità, diritti delle donne. Il suo nome e passione, edito in Italia da Mondadori, è stato censurato nei paesi arabi: che una donna affronti temi come l’omosessualità, la sessualità, il tradimento, rappresenta senza dubbio un pericolo in società religiose basate sulla superiorità dell’uomo. Con voce affettuosa Alawiya ha letto in arabo alcuni brani del suo romanzo: “Quando ci abbracciavamo e i nostri corpi diventavano uno, avevo la sensazione che i miei fianchi, le miei mani, il mio collo, ogni parte del mio corpo fossero  come le lettere dell’alfabeto arabo, che si curvano, si rigirano, si lamentano, si struggono, si crucciano pur di restare appiccicate, pur di penetrarsi a vicenda, e che il mio ventre, come la lettera nun, allargava le braccia per riceverlo.”
“Mia signora, dicono che la donna ha novantanove zone erogene, ma non le elencano. dicono che il pudore impedisce che le si nomini e le si renda note. (...) In ogni caso gli uomini amano le donne a prescindere dalle novantanove zone erogene, basta un’unghia del piede ad eccitarli.”
Piglio istrionico e capigliatura leonina, l’algerina Malika Mokkedem ha letto con grande trasporto in francese un brano inedito del suo ultimo romanzo La desiderance. È la storia di un amore tragico: lui muore nella speranza di attraversare il Mediterraneo, lei lo apprende da una telefonata della guardia costiera e si mette alla ricerca dei responsabili. Malika Mokkedem, dopo la laurea in medicina a Orano, emigrò in Francia a causa della sua opposizione al regime algerino. Il mare è al centro de La desiderance, come già di N’Zid. In una sua intervista dice: “Durante i miei primi diciassette anni di vita in Francia ho passato tutte le estati a navigare. Alla fine degli studi ho persino solcato il Mediterraneo per sei mesi di fila con il progetto di un viaggio attorno al mondo in barca a vela. Mollare gli ormeggi, staccarsi dal molo allontanando la barca con il piede, prendere il mare mi dava una vertiginosa sensazione di libertà, sommata ad un piacere atavico. Il Mediterraneo si offriva a me come un cuore che batte tra le due rive della mia sensibilità. Ed è a forza di frequentare il mare aperto che ho trovato il senso della parola infinito: l’infinito è la libertà.”
Al termine dell’incontro è però successa una cosa strana, è stato impossibile fotografare le tre scrittrici assieme, né, a pensarci bene hanno conversato fra di loro, nè al pubblico si è permesso di rivolgere loro delle domande. Ci si può trovare ad un incrocio e sorridere cortesemente ma incontrarsi, capirsi e parlarsi davvero è un’altra cosa e non è una questione di lingua o cultura ma di volontà. 
foto: da sinistra Malika Mokkedem, Ghada Abdel Aal, Alawiya Sobh.

mercoledì 18 aprile 2012

La confessione


C’erano libri che sovrastavano il rumore della vita e ti catturavano parlando solo delle cose più vere, Confessione era uno di questi libri. Tolstoj racconta la favola russa di un uomo che, inseguito da un mostro, si butta in un pozzo. Ma mentre sta cadendo vede sul fondo un drago che aspetta di divorarlo. In quell’istante l’uomo nota un ramo che sporge dal muro del pozzo e lo afferra, restandovi aggrappato. Così non cade nelle fauci del drago, né può essere mangiato  dal mostro che incombe dall’alto, però ha un altro problema. Due topolini, uno nero e uno bianco, stanno rosicchiando il ramo. Presto il ramo si spezzerà facendolo precipitare. Meditando sull’inevitabile sorte che lo attende, l’uomo si accorge di un’altra cosa: dall’estremità del ramo a cui è appeso gocciola del miele, e lui tira fuori la lingua per leccarlo. Questa dice Tolstoj, è la difficile condizione umana: noi siamo l’uomo aggrappato al ramo. La morte ci aspetta. Non c’è scampo. E così ci distraiamo leccando le poche gocce di miele che ci vengono offerte.
Eugenides Jeffrey, La trama del matrimoniotraduzione di Katia Bagnoli, ed Mondadori

martedì 10 aprile 2012

Padri e figli


Mio caro figliolo, son trascorsi ormai quattro mesi senza che dai tuoi laconici scritti si possa dedurre che tu abbia compiuto il minimo passo avanti nella carriera o sia in procinto di compierlo. Sono ben lieto di riconoscere che nel corso di questi anni  m’è stata concessa la soddisfazione  di udir lodare da varie fonti autorevoli l’opera tua e pronosticare a te, conseguentemente, un promettente avvenire. Ma la tua innata tendenza, non trasmessa certamente da me, a fare di gran carriera i primi passi, quando un compito ti attira, ma a dimenticare ben presto ciò che devi a te stesso e a coloro che hanno riposto in te le loro speranze, e d’altra parte, il fatto di non poter ricavare  dalle tue notizie la minima indicazione di un piano per la tua vita futura, mi riempie di grave affanno.
Non soltanto hai raggiunto un’età in cui  gli altri uomini si sono già fatta una posizione ben salda, ma inoltre io posso morire da un giorno all’altro, e il patrimonio che lascerò in parti uguali a te e a tua sorella non sarà da disprezzarsi, nelle attuali circostanze, però non basterà ad assicurarti da solo quel posto in società che tu devi finalmente raggiungere con i tuoi mezzi. Mi preoccupa gravemente il pensiero che da quando ti sei laureato fai solo vaghi accenni a progetti che s’estendono ai più vari campi, e di cui tu probabilmente secondo la tua abitudine esageri assai la portata; e non ti riferisci mai alle soddisfazioni che ti darebbe una cattedra di insegnamento, né mi risulta che tu abbia preso contatti a tal scopo con qualche Università o con circoli competenti.
Robert Musil, L’uomo senza qualità, traduzione di Anita Rho, Einaudi, Milano,1972

sabato 7 aprile 2012

Mappe

(...)
I confini tra paesi sono appena visibili,
come se esitassero: essere o non essere?
Amo le mappe perché mentono
Perché non ammettono le verità aggressive
Perché con magnanimo e bonario humour
Mi dispiegano sul tavolo un mondo
Non di questo mondo
Wislawa Szymborska

domenica 1 aprile 2012

Eating heavenly


Mangiare divinamente, Eating heavenly, è un desiderio che abbiamo tutti, certo non facile da realizzare, è anche  materia di studio riservata a chef pluristellati, quelli da guida Michelin, argomento per  vademecum firmati  Slow Food o Associazione Italiana Sommelier. Il titolo si presta a indicare diverse strade, tra le più inaspettate quella che riguarda riti e i simboli collegati al cibo in ambito siro-mesopotamico (III millennio avanti Cristo). Eating heavenly, progetto di ricerca che coinvolge gli atenei di Venezia, Udine, Torino, Napoli, che in un recente convegno hanno presentato i loro contributi, tracce di qualcosa che ci è familiare anche se pare lontano.
Massimo Maiocchi della Venice International University nel suo paper Il dolce sapore della morte: simbologia delle offerte rituali nella Mesopotamia protodinastica, ha preso le mosse da alcuni  testi presargonici risalenti alla dinastia di Lagash (2500 avanti Cristo), 1600 testi dell’archivio della Casa della donna, fra cui gli elenchi di  assegnazione di beni alimentari per un funerale; ai lamentatori funebri venivano inviati: formaggio, datteri, miele, burro chiarificato, uva passa, melograni, collane di fichi. Il corpo del cadavere, che si immaginava dovesse compiere un lungo viaggio doveva essere trattato con attenzione, in un testo si raccomanda: ”Non aspergerlo con olio buono preso da una giara, poiché (gli spiriti maligni) lo circonderanno  a causa della sua fragranza.” Anche alla statua dedicata al defunto venivano offerti alimenti dolci. Un connubio che nei secoli non è venuto meno, se si pensa che ancora oggi in molte regioni italiane si preparano dei dolci per il giorno dei morti: le favette in veneto,  le os de mort in Lombardia, il torrone dei morti a Napoli, la frutta di Martorana, i pupi di zucchero siciliani, le dita di apostolo, la colva pugliese, i fanfullicchi leccesi. Secondo Maiocchi, tra gli alimenti dolci, il miele occupa un posto di primo piano: citato in testi magici, erotici, elenchi di offerte funebri, secondo lo studioso ha una funzione liminale, è un alimento simbolo del passaggio tra vita e morte, un cibo che funge da soglia perché non è né liquido né solido (i defunti non mangiano pane né bevono). È prodotto dalle api che, come gli uccelli, sono animali volanti  in contatto con dio, e dotati di qualità straordinarie: “L’ape riesce dove l’aquila non riesce”.
Un altro alimento che aveva un particolare valore rituale era la birra, un po’ diversa dalla Heineken del supermercato, che viene citata anche nel poema Lugalbanda nella grotta della montagna. Lugalbanda, terzo re di Uruk e padre dell’eroe sumero Gilgamesh che passando attraverso le montagne di Aratta  sviene all’improvviso. Incapaci di rianimarlo i suoi compagni lo abbandonano in una caverna: “Essi prepararono per lui un riparo come un nido d’uccello. Datteri, fichi, e formaggi – alimenti dolci che un malato mangia volentieri – essi posero in cesti per datteri. Essi costruirono per lui una “casa” (...) Davanti alla tavola disposero birra da bere, mischiata con  miele, e cibo...con burro chiarificato. I suoi fratelli e compagni, come se stessero scaricando una chiatta dopo la mietitura, disposero nella grotta della montagna, accanto alla sua testa, provvigioni versate in contenitori di cuoio e in otri di pelle. Essi (...) acqua dagli otri per l’acqua. Birra scura, birra kurunnu “chiara” di orzo, vino da bere che è piacevole al gusto – essi sparsero tutto ciò accanto alla sua testa nella grotta della montagna (...). Essi prepararono per lui incenso e resine, (...) e le appesero nella grotta della montagna presso la sua testa.”
In Banchetti e gestione delle risorse alimentari in alcuni archivi paleo-babilonesi, Simonetta Ponchia si è soffermata, tra l’altro, sul valore simbolico del banchetto, occasione per celebrare  il sovrano, per creare vincoli e alleanze, consuetudine che conosce la sua apoteosi nel Rinascimento, memorabile il Banquet du Faisan ccon 48 portate che si tenne a Lille  il 17 febbraio del 1454 con lo scopo di preparare una crociata per liberare Costantinopoli dai turchi.
Con Magici alimenti o alimenti del magico? Sabina Crippa ha invece trasportato la platea nella molteplicità della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, in particolare tra le pagine del trentesimo volume che contiene una raccolta di bizzarre  ricette come il falcone annegato nel latte o il pane di Giove (cervello di topo , cenere di donnola, milza d’asino).
Si è poi soffermata sulla grafofagia, rito per comunicare  con gli dei che prevede di mangiare, bere o leccare lettere sacre; il rituale era praticato anche con un frammento di mummia posto sotto la lingua o con statuette di farina. “Il pasto virtuale con la divinità, lascia che io possa essere bocca a bocca  in una conversazione con gli dei.”
Nel papiro magico di Parigi, composto da 3200 versi, tra le prescrizioni per entrare in contatto con Helios, è descritta  la preparazione dello scarabeo: triturare miele e fiori di loto e gettare lo scarabeo  nell’olio di rosa, e, al verso 789, si raccomanda:  cogli la Kentritis, miele e mirra, e scrivi il nome sulla foglia che leccherai e poi getterai nell’olio di rosa. La Kentritis, secondo fonti diverse, cresce nella terra nera, l’attuale Maghreb, somiglia alla Verbena, è legata al culto di Mitra e, racconta Plinio, se si intinge nel suo succo un’ala di ibis le penne cadono al suolo. Va colta prima dell’alba, con il metallo o con mano nuda o velata.
Impossibile, comunque, riassumere in poche righe la ricchezza del convegno, si può solo suggerirla citando gli altri temi affrontati: Cerimonialità alimentare ad Ebla (Lucio Milano, Maria Vittoria Tonietti), Il banchetto nei testi mitologici ittiti (Annamaria Polvani), Il banchetto nell’Anatolia ittita (Stefano de Martino), Il banchetto nei testi letterari della Mesopotamia (Stefania Ermidoro), La cucina del dio e del re  nell’alimentazione dell’impero assiro (Salvatore Gaspa , Una mela al giorno ... il ruolo del cibo nei testi medici di epoca neo-assira (Mario Fales), I topi sono un cibo divino! (Simonetta Graziani), Galateo e offerte alimentari nella Babilonia di età seleucide (Paola Corò), Il banchetto di Mitridate. Cerimoniali alla corte dei sovrani Arsacidi (Carlo Lippolis), L’istituto di mrzb nel vicino Oriente antico (Alfredo Criscuolo), Pasti e banchetti comunitari nell’Arabia antica (Riccardo Contini), I luoghi del banchetto nell’Arabia antica (Romolo Loreto).