mercoledì 30 marzo 2011

Transports amoureux

"ll quotidiano francese Libération, nella sua sezione dedicata alle inserzioni dei lettori, ha una…non so come chiamarla…sottosezione, direi, dal titolo “transports amoureux”. Per coloro che, durante un tragitto sul tram o sulla metro, magari andando al lavoro la mattina, o la domenica a comprare la torta da ladurée, sono rimasti folgorati da uno sguardo, non riescono a togliersi dalla testa un sorriso…in alto i cuori, romanticoni miei: potete tentare la fortuna e mettere un annuncio per dire alla signorina col cappotto rosso alla fermata di Montmartre, o al giovanotto con il libro rilegato in giallo quello che in quell’istante, per timidezza, o per mancanza di tempo o dell’occasione giusta non avete potuto dire. E cioè, mi piacerebbe rivederlo, il vostro sorriso. Parlare con voi del vostro libro. Avere la possibilità di conoscervi."
Anna Maschio, dal blog Annachef

sabato 26 marzo 2011

Una vecchia città


"Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi.”


“Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là)"

“Come quando guardiamo nella cabina di una locomotiva: ci sono impugnature che hanno tutte, più o meno, lo stesso aspetto. (Ciò è comprensibile, dato che tutte debbono venire afferrate con la mano). Ma una è l’impugnatura di una manovella che può venir spostata in modo continuo (regola l’apertura di una valvola); un’altra è l’impugnatura di un interruttore che ammette solo due posizioni utili: su e giù; una terza fa parte della leva del freno: più forte si tira più energicamente si frena. Una quarta è l’impugnatura di una pompa: funziona solo fin quando la muoviamo in qua e in là.”

“Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi.”

“Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più.”

Wittgenstein, Ricerche filosofiche, traduzione di Mario Trinchero

venerdì 25 marzo 2011

Le Odissee

Quante Odissee contiene l'Odissea? All'inizio del poema, la Telemachia è la ricerca di un racconto che non c'è, quel racconto che sarà l'Odissea. Il cantore Femio alla reggia d'Itaca sa già i nostoi degli altri eroi; gliene manca solo uno, quello del suo re; per questo Penelope non vuole più sentirlo cantare. E Telemaco parte alla ricerca di questo racconto presso i veterani della guerra di Troia: se trova il racconto, finisca esso bene o male, Itaca uscirà dall'informe situazione senza tempo e senza legge in cui si trova da tanti anni. Come tutti i veterani, anche Nestore e Menelao hanno molto da raccontare; ma non il racconto che Telemaco cerca. Finché Menelao non se ne vien fuori con una fantastica avventura: camuffatosi da foca, egli catturò il "vecchio del mare", cioè Proteo dalle infinite metamorfosi, e lo costrinse a raccontargli il passato e il futuro. Proteo certo conosceva già tutta l'Odissea per filo e per segno: comincia a raccontare le vicende d'Ulisse dallo stesso punto in cui attacca Omero, con l'eroe nell'isola di Calipso; poi s'interrompe. A quel punto Omero può dargli il cambio e seguitare il racconto. Giunto alla corte dei Feaci, Ulisse ascolta un aedo cieco come Omero che canta le vicende d'Ulisse; l'eroe scoppia in lacrime; poi si decide a raccontare a sua volta. In questo suo racconto, egli giunge fino all'Ade a interrogare Tiresia e Tiresia gli racconta il seguito del suo racconto. Poi Ulisse incontra le Sirene che cantano; che cosa cantano? ancora l'Odissea, forse uguale a quella che stiamo leggendo, forse diversissima. Questo ritorno-racconto è qualcosa che c'è già prima di essere compiuto: preesiste alla propria attuazione. Già nella Telemachia, incontriamo le espressioni "pensare il ritorno", "dire il ritorno" Zeus non "pensava al ritorno" degli Atridi; Menelao chiede alla figlia di Proteo che gli dica 2il ritorno" ed essa gli spiega come obbligare il padre a dirlo per cui l'Atride può catturare Proteo e chiedergli: "Dimmi il ritorno, come andrò sul mare pescoso".
Italo Calvino, 21 ottobre 1981

martedì 22 marzo 2011

C'è un tempo negato e uno segreto

C'è un tempo negato e uno segreto
un tempo distante che è roba degli altri
un momento che era meglio partire
e quella volta che noi due era meglio parlarci.

C'è un tempo perfetto per fare silenzio
guardare il passaggio del sole d'estate
e saper raccontare ai nostri bambini quando
è l'ora muta delle fate.

C'è un giorno che ci siamo perduti
come smarrire un anello in un prato
e c'era tutto un programma futuro
che non abbiamo avverato.
Ivano Fossati

sabato 19 marzo 2011

In the mood for Torino



Un negozio bizzarro che non ho visto, un museo che è l’acronimo del mio nome, un chirurgo che per distrarsi fa il cameriere, ma solo il sabato e la domenica. Leggendo la guida Lonely in treno m’aveva colpito il nome Nautilus, già m’immaginavo un locale a forma di sottomarino. No è un negozio con vetrina ma la visita non dovrebbe essere meno interessante: antichi strumenti medici, mirabilia, chimere di animali fantastici, vecchi tratatti di anatomia, protesi, trapani, teschi, dentiere. Ci andremo, pensavo in treno, il Tgv delle 16.10 che collega Milano a Torino e poi prosegue verso Parigi. L’interior design delle carrozze è curato e colorato, ma si sta stretti come sulle spiagge romagnole. Per fortuna la vicina di corridoio è una signora dall’aria interessante: laptop, occhiali rossi a goccia che trattengono i capelli scarmigliati e un piccolo cane dormiglione. Lavora per un fotografo di moda e sta andando a Parigi per la settimana della moda. È responsabile della post-produzione, cioè della selezione e del ritocco delle immagini, e dei contatti con i giornali. Un lavoro affascinante, sempre in giro per il mondo e sprofondata nella bellezza. ”È lavoro -dice, quella che sembra bellezza è photoshop. Ho degli orari impossibili e non trovo un attimo per me stessa.” Racconta della sua squadra di giovani assistenti, parliamo di Versace e Belèn, di politica e di valori. Il treno arriva a Torino Porta Susa in un attimo, la velocità delle parole. Qui Rossana ed io dovremmo inabissarci nei sotterranei del metrò trascurando una parte di città. Preferiamo di no, attraversiamo la strada, il portico di via Cernaia già ci accoglie, avvolge, protegge. Un caffè, un bouquiniste, una libreria. Nelle strette viuzze del quadrilatero romano le luci accese nel crepuscolo, una farinata ligure con pepe servita da un napoletano che fa anche le pizze con il pomodoro di Sorrento; cartoccio da passeggio, anzi due, prima di scoprire che il cannocchiale di via Garibaldi inquadra le Alpi: le vette innevate sono blu nell’approssimarsi della sera. A Palazzo Madama saliamo la bianca scalinata dello Juvarra. Attraverso i vetri del piano superiore la piazza e la prospettiva di via Garibladi hanno la morbidezza di un quadro impressionista. In piazza Castello una sposa posa davanti ad uno degli storici tram verdi. Poi ancora una strada di portici - ce ne sono per 16 chilometri informa il baedeker - via Po che fila dritta verso piazza Vittorio e t’ordina di guardare, ai piedi della collina oltre il Po, la Gran Madre di Dio, una chiesa ottocentesca che da lontano sembra il Pantheon. Si dice che una delle sue statue indichi dov’è celato il Santo Graal. Alla fine della via punteggiata da librai ambulanti e chocolaterie, due locali storici: il Caffè Vittorio Veneto “dal 1878” e il Caffè Elena con la pubblicità del “Vermuth Carpano”. Torino come Vienna ha conservato il gusto di sedersi ad un tavolo, leggere un giornale, fare due chiacchiere, guardare gli altri e farsi guardare, in una parola il gusto dell’incontro con l’altro. Si sono seduti ai tavoli dei caffè torinesi fior di intellettuali e scrittori, come Pavese e Bobbio, e di sicuro da qualche parte si sono seduti anche Jules Verne e il professor Pierre Aronnax.
Siamo quasi arrivati. Nella vicina via Giulia di Barolo ci aspetta l’amico Simone, giovane architetto, occhi mediterranei e un sorriso che dice “Benvenuti a Torino”. Abita qualche numero dopo la “fetta di polenta”, Casa Scaccabarozzi. L’eccentrica residenza d’angolo progettata dall’Antonelli, quello della Mole, ha le pareti che si stringono fino a combaciare con la facciata. La serata è un incontro tra amici attorno alla gustosa cena preparata da Raffaella.
Domenica comincia con la colazione preparata da Elena, la nostra dinamica e discreta padrona di casa. Dalle vetrate del bed and breakfast, in via di San Vito, si vede Torino nell’abbraccio vigoroso della catena alpina spruzzata di bianco. Alle otto e mezza siamo già alla Chiesa dei Cappuccini, dalla terrazza-parcheggio la Mole spicca nel panorama cittadino, poi lo sguardo sale su per la collina alla nostra sinistra: la Chiesa di Superga è una M rovesciata nella foschia della mattina. Pieno d’energia con il bicerin, caffè, cacao e crema di latte, in Piazza della Consolata. Bicerin si chiama anche il caffè che dal 1763 si trova proprio di fronte all’entrata della chiesa; ha il soffitto basso e conserva l’arredo di inizio Ottocento con tavoli rotondi in marmo illuminati da candele, le boiserie con gli specchi e i vasi di confetti colorati. Il locale è stato sempre gestito da donne racconta Grazia che ci lavora da vent’anni. Ha gli occhi vispi e si definisce una zingara; fino ai trent’anni ha girato il mondo, per un periodo è stata con uomo a Santo Domingo, poi si sono lasciati ed è tornata nella sua città, ha cominciato qui come lavapiatti ... oggi dirige il locale. Nei viaggi, come nella lettura, immaginiamo le vite che non abbiamo vissuto.
Il compositore di lumini, potrei chiamarlo così il signore che in abito grigio nella Chiesa della Consolata si preoccupa di ordinare i lumini accesi come se fossero soldatini. Tanti ex voto, disegni e frasi incorniciate come articoli di cronaca su vite sconosciute. Il borgo di Venaria ha una piazza che segue le morbide forme delle contadine della pianura, la reggia, invece, in cui i duchi di Savoia si dedicavano alla caccia e alle feste, ha un aspetto più austero. Il percorso tra le sale ospita delle interessanti installazioni video del regista Peter Greenaway, lo stesso che al refettorio di San Giorgio Maggiore fece rivivere in proiezione multipla le Nozze di Cana del Veronese. Dame, cuochi, cavalieri e nobiltà si rivolgono al visitatore, un fascio di suoni e colori nell’oscurità. In quelle che una volta erano le cucine un cuoco avverte: “non si vive senz’aria per tre minuti, senz’acqua per tre giorni, senza cibo per tre settimane...” e poi spiega in italiano seicentesco le regole della buona cucina. In un’altra stanza i volti di otto donne spettegolano da una parete all’altra sopra i rispettivi amanti, nello schermo di un letto è sintetizzata la vita dell’uomo: una bambina diventa donna, moglie, madre e infine invecchia. Tra gli interpreti scelti da Greenaway anche Luciana Littizzetto e Piero Chiambretti. I giardini della reggia non sono ancora fioriti, alcuni lati sono recintati da reti di cantiere, il sole riscalda appena e nell’aria atomi di neve.
In Piazza della Repubblica atmosfera multietnica e disordinata con le fantasiose bancarelle degli ambulanti del Maghreb che vendono di tutto: dalle scarpe usate ai libri, dai giocattoli vecchi agli ombrelli. In Piazza Castello la Mole Antonelliana sembra vicina ma è un’illusione, bisogna camminare per una ventina di minuti e poi avvicinarla lungo vie strette che ne sottolineano l’imponenza. Al suo interno il Museo del Cinema e l’ascensore panoramico, ma due ore di coda scoraggiano i migliori propositi. Via Po, Giardini Reali, circumnavigare Piazza Castello, toccata e fuga al famoso caffè Baratti e alla Galleria Subalpina per sbucare in piazza Carlo Alberto e poi attravesrare il cortile di Palazzo Carignano, affacciarsi lungo via Accademia delle Scienze, raggiungere l’Egizio, fermarsi ad ascoltare due musicisti che suonano Caravan e In the mood, scoprire la libreria internazionale Luxembourg, la più antica e affascinate di Torino, incontrare due torinesi che portano a passeggio un carlino e ci suggeriscono di raggiungere il Duomo passando dal vicolo di Palazzo Reale non senza aver messo il naso nella caffetteria che espone i servizi da tavola in porcellana e argento della Real Casa. Camminare in una città che non si conosce è come prendere appunti per disegnare una mappa che sarà piena di dimenticanze e imprecisioni.
Al Duomo ascoltiamo i vespri e poi ci avviciniamo alla cappella della Sindone, la reliquia è coperta da un drappo tricolore e una zelante “volontaria della S. Sindone” riprende quelli che provano a scattare foto: “Signore questo è un luogo sacro e non si può fotografare”. Piazza Duomo confina con i resti del Teatro Romano e i giardini di Porta Palatina dove puoi osservare campanili, grattacieli e palazzi che spuntano a diverse altezze come matite da un barattolo: barocco, rinascimento, romanità, modernità e una punta di kitsch. Sarà la leggenda della Sindone, sarà la stanchezza, sarà la presenza dei reperti romani, o tutte queste cose assieme, ma in questo punto della città ci si sente sulla soglia di una dimensione sconosciuta. La giornata volge al termine: in via San Domenico un’insegna rossa segnala il Mao, il “mio” museo? no è il Museo d’Arte Orientale che ha chiuso da poco. Alla prossima volta insieme ad altre mete: il Nautilus, il Lingotto, Parco Valentino, il ristorante di cucina libanese El Mir, il Luce e Gas, l’Hafa Hammam di Porta Palatina, il Balòn il mercato delle pulci di Borgo Dora, il Caffè Lavazza, Stupinigi, Rivoli, Piazza Statuto, Piazza San Carlo e tante altre. Cena da Cianci in Largo IV Marzo, una trattoria consigliata da Simone, piena di confusione e allegria dove quello che mangi passa in secondo piano, perché è più interessante cogliere gli scherzi e le occhiatacce dei camerieri: tre amici che getiscono il locale come un chiosco in riva al mare: uno sembra Depardieu da giovane, l’altro Lou Reed prima del declino e il terzo con la bandana, lontano parente di Raz Degan, dietro il banco scaraffa Nebbiolo a go go. L’unica normale è Nathalie, la cameriera peruviana che sorride quando perde contatto con l’affiatato trio. In sottofondo musica rock a tutto volume, non si sa se per darsi la carica o per accelerare i tempi di permanenza, fuori c’è gente che aspetta. Gianni-Depardieu è il chirurgo del centro ustionati che nei fine settimana ha fame di vita normale. Incontriamo anche Roberto, art director e amico di Simone. Occhiale gramsciano e barba accennata, ci racconta la Torino della politica e degli incarichi, la Torino dei quartieri che cambiano, come San Salvario che sta diventando una delle zone più alla moda della città. La mattina presto a Torino Porta Nuova saliamo sul “Nautilus” diretto a Venezia: “Caro Aronnax a maggio c’è il Salone internazionale del libro, si potrebbe tornare”.

lunedì 14 marzo 2011

"Le mie camminate"


"Nelle mie camminate c'era un che di ossessivo, un impeto insaziabile ad aleggiare, a vagare tra gli sconosciuti come un fantasma, e dopo due settimane le strade mi si erano trasformate in entità del tutto personali, in una mappa del mio territorio interiore. In seguito, e per anni, ogni volta che chiudevo gli occhi prima di dormire mi ritrovavo a Dublino. Man mano che la veglia mi sgocciolava via e sprofondavo nella semincoscienza, mi rivedevo in Irlanda a camminare per quelle strade. Non so spiegare il perché. Laggiù mi era accaduto qualcosa di importante, ma non sono mai riuscito a stabilire esattamente cosa. Qualcosa di terribile, credo, qualche incontro ipnotico con il mio abisso, quasi che nella solitudine di quei giorni avessi scrutato nelle tenebre scorgendo per la prima volta me stesso."

"A poco a poco imparai ad improvvisare, mi allenai a difendermi. Negli ultimi due anni alla Columbia andai a caccia di ogni genere di collaborazione saltuaria, prediligendo sempre di più la routine scribacchina con cui avrei tirato a campare fino a trent'anni, e che infine mi avrebbe condotto al disastro. Credo che in questo ci fosse un pizzico di romanticismo, il bisogno di affermarmi come outsider dimostrando che potevo farcela da solo, senza inchinarmi a nessuna idea d'altri su quello che rende buona una vita. La mia vita sarebbe stata buona se, e solo se avessi tenuto duro e mi fossi rifiutato di cedere. L'arte era santa, e seguire il suo richiamo significava compiere qualunque sacrificio mi richiedesse, mantenere la mia purezza di propositi fino in fondo."
Paul Auster, Sbarcare il lunario

giovedì 10 marzo 2011

The West an the Rest


Benjamin Robins non è un personaggio molto conosciuto. Visse a Londra nella prima metà del Settecento e pubblicò un importante trattato di artiglieria che rivoluzionò le strategie militari e le possibilità di conquista. Il suo nome campeggia su una dell slide proiettate da Niall Ferguson all'auditorium Santa Margherita in occasione delle Ca' Foscari International Lectures. Ferguson è professore di Storia e docente di Business Administration a Harvard. Ha quarantasei anni ed è considerato dal Time Magazine uno dei cento personaggi più influenti del nostro secolo. Il suo ultimo libro, Civilization, the West and the Rest, analizza le ragioni per le quali l'Occidente ha dominato il mondo e nello stesso tempo si chiede se questo dominio non sia giunto al termine. La sua lezione comincia con La processione, un quadro del Bellini conservato alle Gallerie dell'Accademia che rappresentata la complessità politica ed economica della Serenissima intorno al 1500. Venezia era all'epoca molto piccola e Londra un villaggio in confronto a città come Costantinopoli, Il Cairo, Beijing. La situazione mutò completamente nel corso dei secoli. Nel 1759 Rasselas, principe d'Abissinia, si chiedeva: "By what means ... are the Europeans thus powerful; or why since they can so easily visit Asia and Africa for trade or conquest, cannot the Asaticks and Africans invade their coasts, plant colonies in their ports, and give laws to their natural princes? The same wind taht carries them back would bring us thither." Ma il vento soffiava in una sola direzione e nel 1913 si toccò il punto massimo della great divergence, l'enorme divario fra le ricchezze possedute dall'Occidente e il resto del mondo. In quel periodo le più grandi città erano Londra, New York, Parigi. Ma da allora la situazione è cambiata di nuovo: Cina e India stanno crescendo vertiginosamente. La spiegazione per questa inversione di tendenza risiede secondo Ferguson in quelle che egli definisce le killer application dell'Occidente (termine informatico che indica un sistema vincente):
- Competitività, l'Europa era un insieme frammnetato di entità politiche in forte concorrenza fra loro.
-La rivoluzione scientifica, le scoperte più importanti in campo matematico, fisico, astronomico, chimico e biologico avvenero a ovest e parte di quest conoscenze furono impiegate in ambito miltare dapprima con il trattato di artiglieria di Benjamin Robins poi con la costruzione della bomba atomica.
- Il ruolo della legge e della proprietà privata rilevanti sia sotto il profilo economico che sociale.
- La moderna medicina, il monopolio di un certo sapere e di alcune cure è anch'esso una forma di potere.
- La società consumistica funzionale alla diffusione di bisogni e di beni.
- L'etica del lavoro orientata a maggiori guadagni e produttività.
Ferguson sostine che queste killer application sono state downlodate (scaricate) come un un software dall' Oriente garantendo al resto del mondo gli stessi, e forse maggiori, successi di chi su quelle applicazioni pensava di avere un brevetto in esclusiva.

Senza scrivania


È possibile lavorare senza scrivania? Certo. Ci si siede in poltrona si accende un iPad e si comincia a lavorare. Non si costruiscono tubi, si saldano idee, non si dipinge un soffitto si disegna un business model, non si fabbrica un prodotto si programma un’applicazione, un social game, un network. L’innovazione passa anche da una diversa postura del lavoratore: in poltrona, in treno, sdraiato sul letto, si può creare e innovare al tavolino del bar come in barca. Non c’è più bisogno di una scrivania, il lavoro si è geodiffuso e i fondamentali sono: un’idea innovativa, una rete di contatti e, questa è l’unica cosa che non è cambiata dai tempi di Cristoforo Colombo, un finanziatore per decollare e fare concorrenza a Mark Zuckerberg o Jimmi Wales. Se ne parla, nella sala riunioni di H-Farm, pochi minuti prima che Silvio Cioni di H-art inizi il suo speech sulla Lift Conference di Ginevra intitolata “ What can the future do for you?”, un appuntamento che quest’anno ha registrato 33 speaker, 1084 partecipanti e 5000 tweets. Cioni comincia da Don Tapscott, l’autore di “Macrowikinomics: rebooting Business and the World” . Nel suo intervento ha ribadito alcuni concetti chiave: openess, collaborazione, condivisione, interdipendenza. Gli speech erano accompagnati da strategic illustration, degli schemi che riassumevano per immagini gli interventi. Disegnare rappresenta una modalità per pensare in modo innovativo, la possibilità di sviluppare attraverso la tecnica dello sketching – usata di norma dai designer - dei business model è spiegata da Alexander Osterwalder nel suo libro “Business Model Generation”. Steve Portigal, che sta scrivendo “The Art and Craft of User Research Interviewing: Diving Deep for Insight”, e Thomas Sutton di Frog Design Milano si sono soffermati su partecipatory design e processi di cocreation, ponendo però un interrogativo fondamentale: le aziende sono pronte?
Steffen Walz, direttore del Future Games and Experimental Entertainment Laboratory di Melbourne, ha approfondito il concetto di gamification, “una parola sbagliata per un’idea giusta”, distinguendo i sistemi commerciali di reward mascherati da giochi a punti e rientranti nella categoria della pointsfication. Sulla frontiera del gioco anche Etienne Mineur di volumique.com con libri che interagiscono come videogiochi con iPhone, o che impongono una lettura temporizzata prima di trasformarsi in pagine coperte da macchie. (A proposito di libri, vanno ricordati gli sviluppi del social reading). “La sessione dedicata ai giochi – racconta Cioni – si è conclusa con la riflessione di David Calvo di Trasnmedia: Do not gamify life, use life to vivify games”.

mercoledì 2 marzo 2011

Misteriosa felicità

A un tratto puoi sentire mentre vai per la via,
una misteriosa felicità
che non proviene dalla speranza
ma da un'antica innocenza.
Sai che non devi guardarla da vicino
perché se la interroghi essa scompare.
(variazione sui versi di "Qualcuno" di J L Borges)