sabato 29 gennaio 2011

Scrittori politically incorrect

Orhan Pamuk non ha rilasciato interviste sulla sua rinuncia a partecipare ad una manifestazione letteraria nello Sri Lanka. Il motivo, cioè il mancato rispetto dei diritti umani in quel paese, è così evidente che una dichiarazione sarebbe risultata pleonastica.
In Francia il ministro della cultura ha mandato al macero il volume delle celebrazioni nazionali che conteneva il nome di Louis Ferdinand Celine, autore notoriamente antisemita. Gesto obbligato.
In Veneto Tiziano Scarpa e altri scrittori sono stati messi all'indice dall'assessore provinciale alla cultura di Venezia per aver firmato un appello contro l'estradizione del terrorista Cesare Battisti. Due scelte sbagliate.
Al Festival di Jaipur scrittori indiani contro gli angloindiani figli di papà (Rushdie, Gosh, Seth, ...) che hanno avuto accesso alle scuole private inglesi. A differenza dei colleghi, restano ai margini a livello internazionale perché scrivono nelle varie lingue nazionali dell'India. No global.

giovedì 27 gennaio 2011

Scrivere e scoprire

"Marias è un grande narratore della verità e del segreto, dell'impossibiità e talora della necessità dell'ignorare. Il suo grande compatriota, Graciàn, deve avergli insegnato che la verità è un salasso al cuore. Raccontare deforma e altera i fatti, li crea e insieme li nega. Lo scrittore e il lettore sono anche delle spie; inventare la vita come fanno gli scrittori - dice Marias - significa "trovare", scoprire la vita stessa, come vuole il verbo latino "invenire". La scrittura fa qualcosa di più: scopre l'assenza, ciò che è andato perduto, le omissioni e i desideri inappagati di un'esistenza, i progetti frustrati; scopre ciò che uno è stato e ciò che non è stato. Solo il racconto può rappresentare questo lato concavo della vita, queste alternative alla realtà all'indicativo ovvero alla totalità dell'esistenza, perché noi siamo quello che abbiamo fatto ma anche quello che avremmo voluto fare, quello che forse per un mero caso non abbiamo fatto ma eravamo pronti a fare, quello che abbiamo pensato e desiderato forse senza confessarcelo, quello che abbiamo dimenticato o fingiamo di aver dimenticato. In ciò consiste la verità della scrittura ma anche il suo potenziale devastante, perché costringe a are i conti con la totalità di ciò che siamo, il cui peso talora è insostenibile." (Claudio Magris)
"Le scatole cinesi di La vita è breve di Onetti non sono meccaniche. Grazie a queste, scopriamo che il vero argomento del romanzo non è la storia del pubblicista Brausen, ma qualcosa di più vasto e condiviso dall'esperienza umana: il ricorso alla fantasia, alla finzione, per arricchire la vita delle persone e il modo in cui le finzioni che la mente affabula si servono, come materiale di lavoro, delle minime esperienze della vita quotidiana. La finzione non è la vita vissuta, ma l'altra vita, quella fantasticata con i materiali che essa le fornisce e senza la quale la vita vera sarebbe più sordida e misera di quanto non sia." (Vargas Llosa)

lunedì 24 gennaio 2011

Shabbat

Andartene via di sabato pomeriggio, proprio all' uscita dello Shabbat in cui noi ebrei leggiamo il testo dei dieci comandamenti, nonna, è solo l' ultima delle attenzioni che hai mostrato a noi ed alle cose importanti che guidano la nostra vita. Da musicista, come dice sempre mio padre, hai saputo, con il tuo senso dell' armonia e del ritmo, scegliere un momento che ci trovasse tutti insieme anche per questo. Non te ne sei andata lo scorso anno, mentre ero in America a perfezionare gli studi, o in Israele. Me lo avevi promesso e, come sempre, hai mantenuto. Già ieri, chissà se te lo saresti aspettato, giornali e televisioni hanno ripercorso la tua vita densa di impegni e successi, dagli anni dell' antifascismo alla presidenza Ucei, dall' esilio in America alla commissione d' inchiesta sui crimini commessi dai militari italiani in Somalia. Lo stesso percorso che tu ed io, di fronte ai pranzi squisiti che cucinavi, tra risate e qualche volta anche lacrime, abbiamo fatto qualche anno fa per pubblicare il nostro libro. Ti ricordo quando mi prende l' ansia e metto le mani in bocca, come sto facendo ora, e quando parlo velocemente mangiando le parole. «Parla adagio» e «non ti rovinare quelle belle mani, disgraziata» me li ripeterò ogni volta che ce ne sarà bisogno, te lo prometto. Ti penso perché ci piacciono gli stessi profumi. Ti penso anche quando, come oggi, cerco affannosamente un parrucchiere che, prima del funerale (oggi alle 12.30, ndr), mi faccia questa benedetta acconciatura a banana di cui parlavi sempre e con cui, adesso lo rimpiango, non ti ho mai dato la possibilità di vedermi. «Vivi più che puoi perché non sarai mai giovane come oggi», era un' altra cosa che dicevi sempre, come che le mie gonne erano troppo corte anche quando in realtà non lo erano. Venivo da te con gioie, affanni, indecisioni, dubbi esistenziali. Non potrò mai dimenticare i giorni, tanti, in cui ho aperto a te il mio cuore felice e poi sofferente. «La vita è lunga - dicevi -, ti devi lasciar vivere». Ripetevi che quando si è giovani tutto sembra irreparabile ma poi in fondo non lo è. Credo che tu abbia ragione, ed ho capito che, proprio come dicevi tu, il cuore è un muscolo intelligente con una voce speciale e «quando urla lo senti». Con Tobia e me hai anche sempre saputo come essere complice. Ieri ho camminato un po' intorno a piazza delle Tartarughe prima di venire da te in ospedale. Mi è tornata alla mente quella volta che, a quattordici anni, i miei genitori mi affidarono qualche giorno a te prima di tornare dalle vacanze. Avevamo pattuito un' uscita clandestina con il ragazzo di allora e rientro all' una. Tornai alle tre e mezzo e scivolai nel letto vestita. Poco dopo eccoti affacciata alla porta della stanza. «Sei tornata?», e io, «sì, da un bel po' ». Tu: «brava, bene, bene» ma continuavi a fissarmi con un aria vispetta e un po' ironica, e io non ho saputo resistere. Mi sono costituita. Quanto abbiamo riso. Mi avevi sentito benissimo, e il giorno dopo toast al formaggio per colazione e omertà con i miei genitori. Tobia invece ricorda di quando andava alle scuole elementari a Lungotevere Sanzio e tu passavi di fronte all' uscita per dargli un bacio prima che tornasse a casa. I miei amici ridono ancora ricordando quella serata in cui, per tenermi qualche ora in più con te dopo cena, invece di raggiungerli alla vineria, mi convincesti ad invitarli da te per un drink alle undici e mezzo. Tu ed io bevevamo mirto, altra passione comune, ma di versarlo ai ragazzi ti sei rifiutata. «Roba da signorine», hai detto, prima di ubriacarli di whisky on the rocks. Una delle cose che mi hai insegnato quando rimanevo con te è che una signora lascia sempre il suo bagno in ordine e che un bicchiere di vino rosso prima di affrontare una prova importante è un trucco che funziona quasi sempre. Un' altra è che le cose importanti, nella vita, accadono. So che avresti voluto esserci in altre occasioni liete che, con la tua benedizione, avverranno nella mia vita. Ti prometto che in quei giorni, come sempre, sentirò una delle tue mani sulla testa a proteggermi e l' altra dietro la schiena a infondermi coraggio e spronarmi a fare sempre di più e meglio.
Nathania Zevi

sabato 22 gennaio 2011

La gueulade


"Non so se lei sa che Flaubert aveva a proposito dello stile, una teoria: quella del mot juste. La parola giusta era quella - unica - che poteva esprimere compiutamente l'idea. Dovere dello scrittore era trovarla. Come poteva sapere quando la trovava? Glielo diceva l'orecchio: la parola era giusta quando suonava bene. Quel perfetto adeguamento tra forma e materia - tra parola e idea - si traduceva in armonia musicale. Perciò Flaubert sottopeneva tutte le sue frasi alla prova de "la gueulade" (lo schiamazzo o vocÍo). Se ne andava a leggere ad alta voce quello che aveva scritto in un viale alberato di tigli che esiste ancora vicino alla sua casa di Croisset: la allée des gueulades. Lì leggeva difilato quel che che aveva scritto e l'orecchio gli diceva se aveva colto nel segno o se doveva continuare a cercare vocaboli o frasi fino a raggiungere le perfezione artitica, che perseguì con ostinata tenacia fino a raggiungerla."
Vargas Llosa, Lettere ad un aspirante romanziere

venerdì 14 gennaio 2011

Il non ascoltare

A ben vedere, che una grave malattia colpisse la parola era chiaro da tempo: per esempio nel linguaggio politico s'è verificato un impoverimento, uno sbiadire e cancellarsi dei significati. Oggi il rifiuto della parola, il non voler più ascoltare mi pare segno di un desiderio di morte. Tendere alla condizione in cui nulla può raggiungerci dal di fuori, in cui l'altro non interviene a scombinare continuamente lo stato di compiutezza che crediamo d'aver raggiunto, vuol dire invidiare la condizione dei morti. L'intolleranza è aspirazione a che il fuori di noi sia uguale a ciò che crediamo essere dentro di noi, cioè a una cadeverizzazione del mondo. In qualche caso l'intollerante è mortifero; in ogni caso è lui stesso un morto.
Italo Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino,1980
Un esempio di discorso intollerante che manipola lo statuto delle parole: "Io non sono un affossatore di compagnie, ne sono piuttosto un liberatore. Il punto è signore e signori che l'avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l'avidità è giusta, l'avidità funziona, l'avidità chiarifica, penetra e cattura l'essenza dello spirito evolutivo, l'avidità in tutte le sue forme, l'avidità di vita, di amare, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l'umanità e l'avidità, ascoltatemi bene, non salverà solo la Tendercarta ma anche un'altra disfunzionante società che ha nome America."
Dal monologo di Gekko in Wall Street, regia di Oliver Stone, sceneggiatura Stanley Weiser, 1987

martedì 11 gennaio 2011

La mia nave

Prendo il comando della mia nave:
ho scorte di cibo e acqua,
ho compagni di viaggio resistenti e affidabili,
la mappa mi é chiara perché l'ho disegnata io
e la mia bussola batte 76 volte al minuto.
Spiego le vele che ho cucito in notti insonni, e parto...
Lotina Lopez su FB

lunedì 10 gennaio 2011

Teoria della comunicazione

"Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l'informa con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte fraintende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuole essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a noi altri , che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva nelle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell'abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d'intendere; perché l'interessato, fondandosi sulla cognizione de' fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso; se c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire ad un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche l'intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra loro come altre volte due scolastici che da quattr'ore disputassero sull'entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto."
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXVII

giovedì 6 gennaio 2011

Sotto le onde

We know so little about each other. We mostly submerged, like ice floes, with our visible social selves projecting only cool and white. Here was a rare sight below the waves, of a mans's privacy and turmoil, of his dignity upended by the overpowering necessity of pure fantasy, pure thought, by the irreducible human element - mind.

Sappiamo così poco gli uni degli altri. Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una rara immagine scattata sotto il pelo dell'acqua, il ritratto del tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero, dall'irriducibile forza umana per eccellenza: la mente.

Ian McEwan, Amsterdam, traduzione di Susanna Basso

sabato 1 gennaio 2011

Fantasia e Leggerezza



Nella famosa raccolta di novelle orientali Le mille e una notte Sherazade racconta del magico tappeto volante di Tangu, chiamato anche il tappeto del principe Housain. Una leggenda ebraica narra che Salomone si serviva di un tappeto di seta e trama d'oro per spostarsi velocemente da un posto all'altro. E nei racconti popolari russi la strega Baba Yaga vola con la stessa magia.

Karl Friedrich Hyeronimus Barone di Münchausen nel 1750 sceglie invece una palla di cannone: "Uno che come me sa cavalcare un cavallo eccezionale come il mio lituano, potete star certi che è in grado di cavalcare qualsiasi cosa. Stavamo assediando una fortezza e ci avrebbe fatto molto comodo sapere come erano disposte le loro difese. Ma c’erano talmente tante sentinelle in giro che nessuno sarebbe mai riuscito a entrare nel forte. Allora, senza stare a pensarci troppo, mi misi accanto ad uno dei nostri cannoni più grossi che stava sparando contro il nemico e in un baleno saltai sulla prima palla in uscita. Pensavo di aver trovato un modo sicuro per entrare nella fortezza! Per mia fortuna, però, mentre volavo a cavallo della palla di cannone, mi resi conto che questa mi avrebbe di certo fatto entrare in città, ma da lì probabilmente non sarei mai uscito, perché i turchi mi avrebbero catturato, fatto prigioniero e probabilmente impiccato. Allora, come vidi passare una palla nemica diretta al nostro accampamento ne approfittai e ci saltai in groppa, facendo così ritorno sano e salvo al campo."

Qualche tempo dopo per volare basterà un semplice secchio vuoto: "Il carbone è terminato, il secchio è vuoto e la pala non serve più a nulla; dalla stufa spira un soffio freddo; la stanza è invasa dal gelo; oltre la finestra le gemme degli alberi sono avvolte dalla brina; il cielo è uno scudo d’argento che schiaccia chi cerca aiuto. Ho bisogno di un po’ di carbone per non congelare; stretto tra una silenziosa stufa e un cielo per nulla misericordioso, devo raggiungere al più presto il carbonaio. È abituato a tener testa alle mie preghiere, devo dimostrargli che non ho neppure un granello di carbone e che per questo egli rappresenta per me il sole del firmamento. Mi presenterò come un mendicante che rantola per la fame ed è pronto a morire sulla soglia di casa, per evitare questo scandalo la cuoca dei padroni decide di usare il fondo dell’ultimo caffè; allo stesso modo il carbonaio dovrà darmi una palata di carbone spinto dal rispetto per il comandamento “Tu non devi uccidere”.
Speriamo che il mio viaggio sia fruttuoso; mi metto a cavallo del secchio e da cavaliere impugno il manico come una comoda briglia, scendo faticosamente le scale ma giunto alla fine il secchio si stacca da terra; meglio dei cammelli che stesi sulla sabbia si rialzano scossi dal bastone della loro guida. Ad un trotto moderato attraverso la strada gelata; il secchio mi porta all’altezza del primo piano, non scendiamo mai a livello della porta di casa. Arrivo sopra l’arco che porta alla cantina del carbonaio, in fondo alla quale egli mastica qualcosa e scrive al suo tavolo. Ha così tanto caldo in quella cantina che la porta è aperta.
“Carbonaiooo” chiamo con la voce arrochita dal freddo e avvolta dal respiro che diventa nuvola a contatto con l’aria fredda. “Per favore un po’ di carbone, il mio secchio è così vuoto che posso cavalcarlo, sii buono, appena posso te lo pagherò.”
Il carbonaio accosta la mano all’orecchio e chiede a sua moglie che lavora a maglia sulla panca intorno alla stufa: “Ma sento bene? Un cliente?”
“Io non sento niente”, dice la moglie mentre lavora a maglia riscaldata dal calore lanoso della stufa.
Allora grido di nuovo “Ma sì, sono io, un vecchio cliente, da sempre fedele e solo momentaneamente senza mezzi”.
“Donna, c’è qualcuno; non posso sbagliarmi di tanto, dev’essere una vecchia conoscenza quella che sa parlare così al mio cuore.”
“Cos’hai?”, dice la donna accostando il lavoro a maglia al petto, “Non c’è nessuno, la strada è vuota, abbiamo provveduto a rifornire tutti i nostri clienti, potremmo chiudere il negozio per giorni e riposare”.
“Ma sono qui sul secchio, per favore guardate in su”, grido io mentre impercettibili lacrime mi velano gli occhi. “Mi vedrete subito, vi chiedo solo una palata di carbone, e se me ne date due mi farete strafelice, tanto gi altri clienti li avete già soddisfatti ... sento già il carbone tamburellare nel secchio”.
“Arrivo”, dice il carbonaio e cerca di salire velocemente le scale ma la donna lo afferra per un braccio e ordina: “Tu rimani qui, non perdere la testa, ricordati la brutta tosse che hai avuto stanotte; per un affare, anche solo fantasticato, ti dimenticheresti di moglie e figlio e manderesti in malora i tuoi polmoni. Vado io di sopra.”
“Allora digli tutti i tipi di carbone che abbiamo nel magazzino, i prezzi poi te li dò io.”
“Va bene” risponde la donna ed esce in strada. Naturalmente mi vede immediatamente. “Signora carbonaia - la saluto con rispetto - per favore solo una pala di carbone, presto qui nel secchio, la porterò io stesso a casa, una pala del carbone peggiore. Lo pagherò a prezzo pieno, ma non subito, non subito”. Le due parole “non subito” si confondono nel rintocco serale del vicino campanile.
“Cosa vuole quel cliente?” urla il carbonaio.
“Niente - risponde la donna-, non vedo e non sento niente; le campane ora battono le sei e noi chiudiamo. Fa un freddo terribile e domani probabilmente avremo ancora molto da fare.”
Dice al marito che non vede e non sente niente e nello stesso tempo si scioglie il grembiule e lo agita in aria per scacciarmi e, purtroppo, ci riesce. Il mio secchio ha le qualità di un destriero ma è vuoto, è troppo leggero e basta quel gesto a mandarlo via in quattro e quattr’otto.
“Malefica carbonaia!” le urlo mentre torna verso il negozio e, per metà sprezzante per metà soddisfatta, agita la mano in aria come a picchiarmi. “Maledetta, ti ho implorato per una palata del peggior carbone e tu non me l’hai dato. E così a cavallo del mio secchio raggiungo le regioni delle Montagne di Ghiaccio e mi perdo nel mondo dell’ a-mai-più-rivederci." Franz Kafka, Der Kübelreiter, 1917

Italo Calvino, nelle sue Lezioni Americane (1993), riassume e commenta questa novella: "Il narratore esce col secchio vuoto in cerca di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo solleva all’altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa di un cammello. La bottega del carbonaio è sotterranea e il cavaliere del secchio è troppo in alto; stenta a farsi intendere dall’uomo che sarebbe pronto ad accontentarlo, mentre la moglie non lo vuole sentire. Lui li supplica di dargli una palata del carbone più scadente, anche se non può pagare subito. La moglie del carbonaio si slega il grembiule e scaccia l’intruso come caccerebbe una mosca. Il secchio è così leggero che vola via col suo cavaliere fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio. (...) Ma l’idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, apre la via a riflessioni senza fine."