lunedì 29 marzo 2010

Vu Cumprà


Incontro Marie Louise Niwemukobwa alla stazione di Mestre, crocevia di viaggiatori, pendolari e questuanti di ogni dove. Marie Louise è un’artista poliedrica, musicista, cantante, scrittrice, impegnata in politica, punto di riferimento delle decine di migliaia di migranti che vivono a Venezia e dintorni. Ha pubblicato un libro originale e curioso, Vu Cumprà a Venezia, storie di venditori senegalesi (Ed. Altromondo, pp.210). Lei, che è nata in Rwanda a Kiraro-Karaba, nella provincia di Gikongoro, un giorno ha deciso di fermarsi a parlare con uno dei tanti venditori di borse. Lo racconta così: “Era novembre, non faceva tanto freddo e sul ponte delal stazione quel giorno c’era Ibu, un signore quarantenne, bello e sorridente che, quando mi vide, mi tagliò la strada con una borsa in mano pregandomi di fermarmi un po’. Rifiutai, ma lui riuscì poi a fermarmi e non solo, anche se non compravo, trascorremmo una ventina di minuti chiacchierando. Da lì nacque in me una simpatia verso i vu cumprà, simpatia che fino ad oggi non è cessata. Partii così allas coperta di “nan nga def”, il saluto senegalese e del jerejef, il modo di ringraziare. Imparai ad ascoltare e finii per scrivere questo libro.”
Il libro attraversa le storie a volte sorprendenti dei venditori di borse. Marie Louise non si ferma alle storie e pone una serie di domande politiche nel senso più alto della parola. L’ultima, la più difficile, è: “ Chi è il responsabile della tristezza degli immigrati?”. Il libro è anche un modo per scoprire, per intuire, che l’Africa non è solo il paese dei Safari e dei leoni, ma un continente altrettanto complesso e vario come l’Europa e l’America. Le tazze dei nostri caffè aspettano il cameriere, nel frattempo arriva una ragazza che dice di essere afgana, di aver bisogno di soldi per suo fratello gravemente malato. Le do un euro. Marie Louise sorride: “Era una zingara, sono brave attrici.” Concludiamo la nostra chiacchierata facendo due passi nei dintorni della stazione di Mestre, passando davanti al parrucchiere africano con musica rag a tutto volume, il market asiatico e il bar dove si ritrovano i rumeni gestito dai cinesi. Gli immigrati a Mestre sono 30.000.

venerdì 26 marzo 2010

Andare oltre

"I miei pensieri sono come gradini su cui salire e andare oltre", scrive Nietzsche nell'aforisma 42 del Crepuscolo degli dei; Wittgenstein nel Tractatus usa la stessa immagine: "Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per cosí dire, gettar via la scala dopo che v’è salito). Egli deve superare queste proposizioni; è allora che vede rettamente il mondo."

mercoledì 17 marzo 2010

Enzensberger


Un maestro del pensiero che unisce ironia a serietà. Hans Magnus Enzensberger ha parlato con giocosa semplicità al pubblico del Teatro Verdi di Pordenone. “Non bisogna prendersi troppo sul serio” ha detto mentre dialogava con Antonio Gnoli nell’ambito del Dedica Festival. Una frase che potrebbe essere il titolo del suo biglietto da visita. Una leggerezza che l’accompagna quando parla di qualsiasi cosa. Ha inventato delle macchine per creare poesie e dice che sono un buon aiuto: nel senso che se fanno meglio di te è meglio che lasci perdere.
Dell’estero dice che è una buona invenzione, perché l’idea di rimanere sempre fra gente simile a noi non ci piace molto: "L’Italia in questo senso per me è l’ideale: trovo il massimo della differenza nella minima distanza dal mio paese”.
“Nella casa editrice che dirigo, Die Andere Bibliothek, ho deciso di attenermi a un criterio molto semplice: pubblico solo i libri che mi piacciono.”
“Per divertente intendo qualcosa che non fa parte della routine, e per routine intendo un lavoro dove c’è sforzo ma non gratificazione.”
"Esistono due tipi di scrittori: il primo è il tipo talpa con un progetto che persegue ad ogni costo; il secondo è il tipo cicogna che si muove e segue la sua preda un po’ ovunque. Io naturalmente appartengo alla seconda categoria."
“Il modello matematico elaborato per il calcolo delle probabilità funziona solo in astratto. Prendiamo le combinazioni del lancio dei dadi o delle estrazioni del lotto. Il modello funzionerebbe se fossimo in presenza di oggetti perfetti. Questo significa che a ogni lancio le probabilità si azzerano. Sempre in termini probabilistici c’è poi una possibilità su un miliardo, forse di più, di incontrare nella propria vita l’anima gemella. Queste considerazioni comunque non hanno nessun effetto pratico: la gente continua a sposarsi e a giocare.”
“Non il metodo conta, ma il risultato." (a proposito delle tecniche di scrittura ndr)
"Platone diceva che i poeti mentono, che non dicono la verità,…naturalmente, in un certo modo, ha ragione: la letteratura non ha un rapporto diretto coi fatti. Ma questo non riguarda solo la poesia: anche i filosofi mentono, gli uomini mentono, la menzogna è un fatto antropologico. La menzogna è una specie di trionfo del cervello. Un animale ha difficoltà a mentire. Saper mentire è una capacità gnoseologica. La relazione fra menzogna e invenzione è stretta: se mi aggrappo alla realtà, senza distanza, la accetto come è, non invento nulla."
"L’originalità è un concetto molto moderno. In altri tempi non contava niente. Gli antichi avevano l’idea che prima di loro fossero vissute persone più importanti di loro: è l’atteggiamento classico. Nella modernità invece c’è questo culto dell’originalità: faccio una cosa che nessuno ha fatto prima di me…è un’ambizione un po’ ridicola! Perché in ogni epoca c’è sempre una frattura ma anche una continuità col passato, e quest’ultima è sempre molto più forte della prima. La poesia è un fatto millenario, è sempre esistita. Noi facciamo parte di una continuità."

sabato 13 marzo 2010

Il malinteso

“Il mondo va avanti unicamente in base al Malinteso. Attraverso l’universale Malinteso tutti si trovano d’accordo. Poiché, se per disgrazia ci si capisse, non si potrebbe mai essere d’accordo”, scriveva Baudelaire in Mon Coeur mis à nu. Sul tema ha scritto pagine straordinarie Vladimir Jankélévitch in La menzogna e il malinteso e nel suo Il non so che e il quasi niente (pubblicato da Marietti ma introvabile in libreria). Jankélévitch individua quattro tipi di malintesi: il doppio malinteso; l’inganno; il malinteso beninteso; il malinteso doppiamente beninteso. Nel doppio malinteso le due persone si fraintendono a vicenda: un turista chiede un’informazione in un inglese non perfetto e l’interlocutore indica una strada sbagliata perché ha compreso altro; oppure persone stanno insieme e ognuna di loro ha un’immagine dell’altro che non corrisponde a quella reale. Nell’inganno uno dei due, colui che inganna, assume una condotta attiva e trae vantaggio dall’incomprensione dell’altro: si pensi a tutti i casi di truffa. Per quanto riguarda il malinteso beninteso, invece, è la persona oggetto del malinteso che decide di non uscire allo scoperto e di avvantaggiarsi della situazione: nel buio una bella donna confonde uno sconosciuto per il suo amante; difficilmente questi rivelerà il fraintendimento. Infine, nel malinteso doppiamente beininteso, entrambi i soggetti sanno di mentire ma decidono tacitamente di non cambiare lo stato delle cose: è, tra gli altri, il caso dei complimenti reciproci e di circostanza in ambito lavorativo. Nessuno dei due ha in realtà un'opinione così alta dell’altro, ma poiché devono collaborare facilitano i loro rapporti attraverso una gentilezza che è solo di facciata.

mercoledì 10 marzo 2010

Nel metrò


Nello stesso tempo ci spiegava Pascal "Nous sommes embarqués", così che l'immagine del metrò parigino è sempre stata per me associata al carattere ineluttabile e irreversibile del percorso umano individuale; era l'anno ( a scuola ndr.) della tragedia classica e del giansenismo: avevo ancora davanti a me il XVIII secolo, in seconda, e il XIX in prima. Ma già il metrò mi aveva insegnato che si può sempre cambiare linea e che se non si sfugge alla sua rete si può, tuttavia, pur sempre fare qualche bella deviazione.
Marc Augé

lunedì 8 marzo 2010

Luftmensch

La curiosa parola tedesca Luftmensch è composta da Luft-aria e Mensch-uomo, cioè alla lettera significa uomo dell'aria. Nel saggio Il Malinteso Franco La Cecla la cita commentando Steiner: "Il suo (di Steiner) è un appello all'universalismo, al cosmpolitismo dei migranti, quelli che i nazisti chiamavano Luftmenschen - uomini dell'aria, quelli che non concepisocno radici, quelli che stanno con i piedi sollevati da terra." Veronica Pellicano scrive che il termine Luftmenschen è usato da storici e sociologi per definire gli uomini che vivevano di aria e nell'aria, per i quali ogni giorno rappresentava una lotta per la sopravvivenza, un arrabbattarsi quotidiano per sfamarsi, un vagare senza mai toccare con mani e piedi la realtà, chiusi in un mondo tutto loro , fatto di preghiera, rinunce, sopportazione. Luftmensch è anche il titolo del romanzo di Sholem Aleichem: il lattivendolo Tewje si arrangia giorno dopo giorno con il suo "cavallino" a vendere il latte delle proprie mucche e sostentare in tal modo la moglie e le figlie; vagabonda citando e stravolgendo i versi della Torà, sempre in bilico tra riso e pianto, tra terra e cielo, tra fantasia e realtà. Per queste caratteristiche Tewje è stato definito il Don Chischiotte della letteratura yiddish. Viene in mente il racconto Der Kübelreiter, "il cavaliere del secchio", di Franz Kafka: lo scrittore racconta in prima persona di non aver più un granello di carbone nel secchio vicino alla stufa. Decide di uscire per cercare il combustibile e quando sale sopra il secchio per scivolare lungo le scale, il secchio è così leggero che alla fine si leva in volo. Giunge dal carbonaio e supplica un po' di carbone a credito, ma la moglie del commerciante non ne vuol sapere e lo scaccia agitando il suo grembiule. Il secchio è così leggero che basta quel piccolo spostamento d'aria a far volare il nostro cavaliere nelle lande delle montagne di ghiaccio dove si perde nel Nimmerwiedersehen (traduzione letterale nie=mai, mehr=più, wieder = di nuovo sehen=vedere). Nella lingua inglese di oggi Luftmensch sta per persona che non ha un reddito e un lavoro definiti, un tipo poco pratico e non realista, ma anche una persona impegnata in delicate questioni intellettuali, il contrario di un materialista.
Immagine: Chagall, Au-dessus de Vitebsk, 1915-1920 

sabato 6 marzo 2010

Guglielmo Libri

A metà dell'Ottocento un certo Guglielmo Libri, che lavorava a Parigi alla Biblioteca di Francia, fuggì in Inghilterra con la bellezza di 30mila tra volumi e manoscritti di Cartesio, Galileo Leibniz, Copernico e Keplero.

martedì 2 marzo 2010

L'Italiano

Se vogliamo conoscere quale sia la vera forma dell'italiano, dobbiamo leggere lo Zibaldone, dove Leopardi studia la nostra lingua con una passione e una precisione che nessuno ha mai eguagliato. Per molti anni Leopardi contempla i movimenti e le metamorfosi della lingua che gli appartiene e a cui appartiene. Ora gli sembra dignitosa, grave, nobile autorevole: simile al latino da cui era nata; e subito dopo osserva che è la più flessibile e pieghevole delle lingue. Ora gli pare lentissima: la vede camminare con un passo cauto e circospetto; poi la scorge procedere con una velocità demoniaca, inseguendo una meta irraggiungibie. Ora ostenta periodi immensi, pesanti e ramificati: ora si beffa di sé stessa, incantando il lettore con una specie di polverio luminoso. Qualche volta, gli sembra una lingua scritta: aforismi e apoftegmi e massime, incise nel marmo o nel bronzo. Qualche volta lo osserva imitare il linguaggio parlato - incertezze, irregolarità, andirivieni, ripetizioni, pause, confusioni, ubriachezze verbali: facendo risuonare in ogni pagina il vasto brulichio della voce umana. Circa ottant' anni fa, la lingua o la superlingua italiana conobbero una nuova rivelazione. Fu un momento felicissimo, di cui, forse, ci rendiamo conto solo oggi, in un periodo di pausa o di attesa. Ungaretti e Montale e Caproni e Bassani e Bertolucci e Gadda e la Morante e Zanzotto e la Ortese e Calvino e Fenoglio compresero che l' italiano aveva smesso di nascondersi, come accadeva ai tempi di Manzoni e di Leopardi. Col 1945 e la fine del fascismo, si diffuse in Italia una lingua parlata diversissima da quella fascista. Sorsero due lingue contrapposte. La prima, quella democristiana, non possedeva una massiccia ideologia politica: affondava soprattutto nel linguaggio ecclesiastico, avvocatesco e giuridico: era ramificata, aggrovigliata, spesso (come nel caso di Aldo Moro) incomprensibile. La seconda (quella comunista) soffocava sotto il peso delle formule marxiste o paramarxiste, ricalcate sulla prosa sovietica. Non aveva né vivacità né movimento. I discorsi dei dirigenti comunisti sembravano immense divisioni di carri armati, che avanzavano lentamente verso la meta. l cinema del dopoguerra e le prime trasmissioni televisive diffusero una forma di romanesco edulcorato, senza la minima traccia della forza espressiva del Belli. Questo falso-romanesco arrotondava o troncavao spezzavao modificava il lessico italiano. Era una specie di italiano inumidito nel Tevere. Esso si diffuse enormemente: specie nella conversazione scherzosa o finto-amichevole; e persino in regioni remote, che avevano sempre detestato il dialetto della capitale. Mezzo secolo più tardi gli italiani parlano una lingua molto diversa da quella del 1950 o del 1960. Una sotto-lingua senza sintassi, né punteggiatura, che detesta la precisione e l' esattezza: sostituisce i segni alle parole: pullula di formule gergali: non riescea esprimere i concetti e i sentimenti più semplici: non possiede colore: balza da un errore di ortografia a un altro errore di ortografia. Contamina la lingua parlata e scritta nelle università, dalla quale viene a sua volta contaminata.
Pietro Citati (Sintesi del testo letto al convegno del Fai ad Ascoli Piceno il 27 febbraio)