mercoledì 29 dicembre 2010

L'autore dell'opera

La condizione preliminare di qualsiasi opera letteraria è questa: la persona che scrive deve inventare quel primo personaggio che è l'autore dell'opera. Che una persona metta tutto se stesso nell'opera che scrive è una frase che si dice spesso ma che non corrsponde mai a verità. È sempre solo una proiezione di se stesso che l'autore mette in gioco nella scrittura, e può essere la proiezione d'una vera parte di se stesso come la proiezione d'un io fittizio, d'una maschera. Scrivere presuppone ogni volta la scelta d'un atteggiamento psicologico, d'un rapporto col mondo, d'un'impostazione di voce, d'un insieme omogeneo di mezzi linguistici e di dati dell'esperienza e di fantasmi dell'immaginazione, insomma di uno stile. L'autore è autore in quanto entra in una parte, come un attore, e s'identifica con quella proiezione di se stesso nel momento in cui scrive.
Italo Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino,1980

domenica 26 dicembre 2010

L'aria delle cime


"Chi sa respirare l'aria dei miei scritti sa che è un'aria delle cime, un'aria forte. Bisogna esser nati per respirare quell'aria, altrimenti si corre il rischio, non piccolo, di raffreddarsi, lassù. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa - ma che pace illumina le cose! Come si respirare liberamente! quanta parte di mondo sentiamo sotto di noi! La filosofia, così come io l'ho intesa e vissuta fino ad oggi, è vita volontaria fra i ghiacci e le alture - ricerca di tutto ciò che l'esistenza ha di estraneo e problematico, di tutto ciò che finora era proscritto dalla morale. Attraverso una lunga esperienza di itinerari nel proibito, ho imparato a considerare le cause per cui fino a oggi si è moralizzato e idealizzato in modo assai diverso da quello che comunemente si richiede: mi si è fatta luce sulla storia segreta dei filosofi, sulla psicologia dei loro grandi nomi. Quanta verità puo sopportare, quanta verità può osare un uomo? questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più."

"Fra i miei scritti, il mio Zarathustra sta a sé. Donandolo all'umanità, le ho fatto il più grande regalo che essa abbia mai avuto. Questo libro, una voce che passa sui millenni, non solo è il libro più alto che esista, il vero libro delle cime - tutto l'affare uomo gli sta sotto, a enorme distanza - , ma anche il più profondo, generato dalla più intrinseca ricchezza della verità, una fonte inesauribile dove non si può calare il secchio senza farlo risalire colmo d'oro e di bontà."

"Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell'avvenire, di quell'avvenire che io contemplo."

"Fare un esperimento della propria vita stessa - questo soltanto è libertà dello spirito, questo divenne poi per me la filosofia."

Friedrich Nietzsche, da Ecce Homo (1888) e da Frammenti e postumi (1888)

martedì 21 dicembre 2010

Nuvole


Nuvole...esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l'intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente, più il niente di me stesso. Nuvole...Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio! Nuvole...
Fernando Pessoa da Il libro dell'inquietudine

sabato 18 dicembre 2010

Il gesto che sorprende

Pietra, legno, ferro si trasformano sotto le loro mani in forme e decori, manufatti e sculture che sorprendono per la loro bellezza e unicità. Tutto nasce sempre dalla capacità di disegnare fin nei minimi particolari quello che si dovrà poi realizzare attraverso gesti sapienti. Alle volte, dopo tanti anni di esperienza, il disegno è solo nella mente, è la memoria delle mani che plasmano la materia. Altre volte è un calco di gesso che porta alla scultura, all'ornamento, altre volte ancora sono piccoli pezzi che vanno montati senza possibilità d'errore. Ogni oggetto contiene in sé l'originalità di un'idea, la storia di uno stile ma soprattutto la passione di creare qualcosa che prima non esisteva.

mercoledì 15 dicembre 2010

Storming Pizza, Tales of creativity

Il fiume scorre là fuori nella gelata campagna veneta a sud di Roncade. Nella sede di H-Farm, l’azienda di webcreativi e start up fondata da Riccardo Donadon, sta per cominciare il laboratorio di idee Storming Pizza. Gli schermi degli iPad e dei MacBook illuminano volti pensosi, sorridenti, concentrati. Vladimiro e un wedesigner dalla barba evangelica scambiano alcune impressioni su LeWeb Paris, la conferenza internazionale che l’8 e il 9 dicembre ha riunito 2500 fra imprenditori, bloggers, investitori e giornalisti. Un giovane con grandi occhiali neri commenta: “Non basta avere una buona idea, bisogna avere la forza e la capacità di portarla avanti, insomma “big shoes and beautiful mind”. Il primo a prendere la parola per raccontare il suo progetto è Massimo. Il nome della sua creatura è Resbox, un applicativo per ricostruire la vita degli oggetti e per condividere con altri idee e informazioni sulle cose. L’uditorio ascolta tra un passaggio di file con Bluetooth e le vibrazioni dei messaggi in arrivo sugli iPhone. “Più persone registrano i loro oggetti in Resbox e più il sistema funziona. Ipotizziamo che io stia cercando un modello particolare di macchina: entro in Resbox e condivido con tutti quelli che hanno registrato quel tipo di veicolo dati e informazioni .”Sì, la cosa potrebbe funzionare, osserva Vladimiro, per quegli oggetti per i quali vi è scarsa disponibilità, come i vinili o le auto d’epoca. Non dobbiamo pensare di essere sempre onnicomprensivi, ma ragionare anche per settori, microaree.” Sorgono ulteriori riflessioni sulla necessità di QR code (un codice di riconscimento) e sul collegamento con Kooaba, dispositivo che cataloga le immagini e Tales of Things, dispositivo che archivia le storie degli oggetti. È la volta di Billo che presenta Wefo, un sistema di gradimento dei siti. “Con Wefo - spiega Billo - puoi fotografare ciò che ti piace di un sito e nello stesso tempo chi visiterà quel sito potrà, usando Wefo, capire quali sono le aree che hanno riscosso maggior successo. Serve un plug-in nel browser. Posso anche decidere, attraverso una mappa di dettagli fotografici, di navigare nel sito seguendo le aree che hanno riscosso maggior gradimento.” A Vladimiro viene in mente un’applicazione che presenta delle analogie apparsa sul creativeapplications e che dà la possibilità ai lettori di un libro in formato elettronico di taggare le frasi o le pagine che li hanno emozionati e interessati maggiormente. Chiunque attivi questo programma può non solo agire segnalando a futuri lettori le sue preferenze, ma anche leggere il libro con gli occhi degli altri. Le righe o le parti “molto buzz” dagli utilizzatori hanno infatti gradazioni di colore diverse. Ci si confronta anche su Sidewiki, la funzione web annotation di Google, sulla possibilità di sviluppare un grabber o un bookmark ad hoc. Da un’idea all’altra la riunione si avvia verso un’amichevole conclusione: arrivano le pizze di tanti gusti. Il dialogo prosegue più leggero su Android e social games, sulle incredibili revenues di chi si è inventato i social goods, sulla nuova maschera di Facebook. Le parole scorrono come il fiume là fuori verso nuovi paesaggi.

lunedì 13 dicembre 2010

L'occhio critico

Esiste un'etica che l' "occhio critico" deve assumere: quella del rispetto degli enigmi personali dell'autore. Non si può, né si deve, decifrare "tutto". Ciò che si deve, invece, assumere è la responsabilità delle trasformazioni che l'impatto con l'opera promuove nello spirito e nel corpo del lettore. Il mondo dell'artista è segreto e quello che noi conosciamo è soltanto la sua maschera, la sua forma esterna, che è già una metamorfosi "pubblica" del segreto. Gli enigmi fanno parte del corpo dell'apparire della maschera. Il criterio che vuole conoscere, interpretare, sciogliere tutto, dimentica o nega che sciogliendo il discorso enigmatico si scioglie anche la "cera" del volto delle cose, la maschera della persona. In greco "persona" o prospon dà origine alla "maschera", prosopeion: la maschera è quindi legata alla persona come l'ombra al corpo . Ogni espressione, ogni gesto, ogni parola, ogni scritto ha una sua ombra.
Salomon Resnik, Sul Fantastico, Bollati Boringhieri, Torino, 1996

sabato 11 dicembre 2010

Le donne viste dalle donne


Immagini poetiche, impegnate, ironiche, immagini di donne che hanno cercato nel quotidiano i momenti della loro femminilità, della loro storia, del loro privato. Sono per certi versi sorprendenti le foto e i testi giunti all’associazione Dorothy di Vittorio Veneto - presieduta da Adriana Paolucci e coordinata da Susanna Tomaselli - per il concorso "Le Donne viste dalle donne”. Oltre duecento le partecipanti dal Veneto e da varie regioni italiane. Trentatrè le foto selezionate dalla giuria composta tra gli altri da Margherita Gobbi, psicologa e psicoterapeuta, Flavia Maraston consigliera per le Pari opportunità e dall’artista Armando Comin. Saranno esposte alla mostra che si inaugura oggi alle 18 allo spazio Mavv di Vittorio Veneto. Un viaggio nell’universo femminile, un susseguirsi di frame lungo i confini di sensibilità diverse. Due occhi in uno specchio: Volti femminili che si affacciano a scrutare la propria interiorità, si sporgono per veder affiorare e dissipare nell’esistenza il proprio essere con le sue innumerevoli sfumature (di Giulia Buci). Una giovane ranicchiata sul letto guarda il cellulare in attesa di una risposta: Ci sono donne che aspettano una chiamata, una parola, un sorriso che le faccia vivere ancora e le donne che non aspettano più niente (Marina Migena). Un volto arrabbiato e una mano che strappa una catena, Taiana Righetti cita Simone de Beauvoir: Una donna che non ha paura degli uomini fa loro paura, Une femme qui n’a pas peur des hommes fait leur peur. Ironico il ritratto di una signora in posizione yoga in un vecchio lavandino: A dimostrare che superiamo gap ambientali terribili e abbiamo la capacità di accedere a livelli spirituali che ci salvano (Annalisa Busato). Un cervello, una chiave inglese e un corpo sensuale: Un omaggio a tutte le donne che preferiscono prendersi cura della propria testa invece che del proprio corpo (Martina Emilia Scalia). Una mamma dopo una giornata di lavoro legge un libro a suo figlio: E dopo un momento di relax si dovrà ripartire con le solite care faccende! (Barbara Dal Cin). Close up su gamba abbronzata che esce da una macchina: Sappiamo essere molto sexy anche solo con un paio di infradito ai piedi...non c’è bisogno di vestiti costosi o di tacchi a spillo (Luana Rigolli). Una donna riflessa nel vetro di un forno: Non di sole pentole (Gloria Piana). Uno sguardo rubato per strada e una frase di K. Gibran: Ascolta la donna quando ti guarda, non quando ti parla (Maura Ghiselli). Interno bagno con lei di spalle e in piedi davanti al water: WhoMan? Quanto il mito della donna al maschile rispecchia la nostra vera natura? (Roberta Modolo). Un volto sorridente con gli occhi chiusi che abbraccia due cani affettuosi in mezzo alla neve: Una inesauribile capacità d’amare e di ascoltare sé stessa e gli altri per comprendere l’essenza delle cose, di apprezzare la vita con la consapevolezza di chi ha sofferto e sa quanto è importante donare un sorriso (Sabrina Falcone). Dettaglio di una bocca con una dentatura irregolare: Non siamo perfette ma sappiamo sorridere. Ci sono milioni di donne che per il lavoro e la famiglia trascurano sé stesse. Ci sono donne che non sono perfette ma nonostante questo continuano a sorridere alla vita e a guardare avanti dando sempre il massimo (Silvia Casagrande). La mostra "Le donne viste dalle donne", che resterà aperta fino all'11 gennaio, è non solo un appuntamento con la fotografia ma anche con una profonda ricerca di senso.

mercoledì 8 dicembre 2010

Perdersi


Ci sono dei momenti in cui ti senti improvvisamente perso. Perdersi è molto semplice, basta un po’ di neve che cade su una pista da sci, una mano da stringere che sfugge, uno sguardo d’intesa che non c’è più. Stai percorrendo una strada, ma superata una curva nascono i dubbi e tutte le certezze cadono giù, in un istante. E’ come se ti sfilassero la sedia un secondo prima che tu ti stia sedendo, con il culo per terra guardi le leggi del mondo e le sicurezze che avevi, non ci sono più. Non c’è quel mondo, o meglio c’è,ma c’è altro. Poi basta alzare uno sguardo e la nebbia si è diradata, incontri occhi nuovi e ti innamori, oppure prendi un treno e torni a casa. Perdersi non c’entra con l’orientamento o la lettura delle cartine, con le bussole o i punti cardinali. E’ una cosa più intima che mostra una parte di noi che non conoscevamo, c’è una parte di noi che non sembra noi. E da lì tutti ci passano e si sentono persi.
LucaS

La tempesta


La tempesta sta per scatenarsi alle spalle della donna. Lei mi trafigge con lo sguardo, quasi a dirmi “So perché sei qui”. Mi muovo, i suoi occhi mi seguono. Perché guarda solo me fra tutte le persone in questa stanza? “Non hai niente di meglio da fare?” penso stizzita, “metti in salvo tuo figlio e smettila di fissarmi”. Sono tesa. Cerco di concentrarmi su quello che devo fare, ma quello sguardo che scruta mi mette a disagio. Il che è davvero stupido, mi dico. Una figura dipinta non può leggere nel pensiero, farti sentire in colpa. Forse è un segno. Forse non avrei dovuto accettare questo lavoro. Io, capace di rubare un quadro famoso? La sala del museo si riempie. Ora un gruppo di sedicenni allampanati e rumorosi mi separa dal dipinto. L’insegnante che li accompagna cerca inutilmente di mantenere l’ordine. Devo sbrigarmi, sto perdendo tempo. Ringrazio in silenzio gli studenti. La loro confusione mi permette di guardare intorno senza essere notata, spero. Il sistema d’allarme è invisibile, ma so dov’è e come disattivarlo. Sono mesi che mi preparo. Questo è l’ultimo sopralluogo, per essere sicura che niente sia cambiato. L’unica cosa a cambiare sarà la mia vita dopo questo furto. Qualunque sia il suo esito. Qualunque. La ressa davanti al quadro aumenta. Gli studenti rumorosi e la loro insegnante disperata lasciano il posto a una guida che brandisce un ombrello e raduna un gregge di turisti giapponesi. Nonostante il divieto di fotografare, scattano a più non posso. L’immagine di quei flash che accecano la donna del dipinto mi dà un piacere cinico. Mi concentro sulle vie di fuga. Due porte sul fondo della sala portano alla sala seguente, l’ultima. Tre finestre guardano il fiume. La quarta, più piccola, si affaccia su una terrazza. E’ da lì che me ne andrò. I giapponesi si spostano veloci nella sala che segue. Chissà cosa resterà loro di questo dipinto. Al massimo qualche foto e un ricordo confuso fra altri ricordi. Senza neppure accorgersi di quello sguardo che giudica. “Magnetico, non trova?” Occhi azzurri, vivaci e pungenti, un sorriso aperto. Giacca in tweed, un pacco di riviste sotto il braccio. Non un visitatore, non un turista, ma uno che sembra appartenere a questo luogo. “Ogni volta che attraverso questa sala, quegli occhi mi costringono a fermarmi. E ogni volta finisce che mi sento come uno studente ad un esame”. “Allora non sono l’unica ad avere questa sensazione” dico allo sconosciuto, e penso “...quindi la donna del dipinto non sta giudicando proprio me, non mi sta dicendo: non farlo!”. Esulto in silenzio. “Se lei sapesse quanti si fermano a osservare questo quadro per ore, cercando di comprenderne l’essenza. Qual è il segreto della dignità di quella donna? Forse è il suo essere madre a proteggerla da una natura minacciosa e a darle il potere di leggere le nostre anime? Mi creda, lavoro qui da anni, e ho conosciuto persone ossessionate da quello sguardo, che in qualche modo mette a nudo la nostra coscienza. Occhi che ci costringono a riconoscere verità che neghiamo anche a noi stessi.” Non mi piace la piega presa dalla conversazione. E non è il caso di perdere tempo a parlare con uno che potrebbe poi ricordarsi di me. Taglio corto, lascio cadere un commento banale: “D’altra parte è il capolavoro di un grande maestro...se è così famoso, un motivo ci deve pur essere...”. Lo sconosciuto sorride, si guarda attorno, si avvicina e sussurra: “E pensi che è solo una copia”.
Lucia Zennaro

martedì 7 dicembre 2010

Dal Tempio di Delfi ai test genetici


Un lungo viaggio che inizia alle porte del tempio di Delfi e si conclude alla soglie di una scelta: sottoporsi o non sottoporsi ai test genetici? In La Consulenza (Gen) etica – Nuovi miti. Nuovi oracoli. Libertà della persona (ed. Franco Angeli pp.208) Paolo Sommaggio ci conduce lungo un percorso che mantiene al suo centro la persona senza prendere posizione pro o contro i progressi della genetica.
L’autore traccia un modello di consulenza che ha come primo obiettivo quello di far sì che la decisione sia presa in piena autonomia ma in coerenza con i principi che regolano le nostre esistenze, senza subire l’auctoritas del medico, la suggestione dei mezzi d’informazione o gli errori derivanti dall’ignoranza in materia. Un aiuto che potrebbe validamente estendersi anche ad altre importanti decisioni dell’individuo in campo medico. L’autore prende le mosse dalla scritta gnothi sautòn incisa sul tempio di Delfi e dalla constatazione di Daniel Kevles: “Per la prima volta nella storia, a cominciare dai tempi più remoti, una creatura vivente comprende le proprie origini e può cominciare a disegnare il proprio futuro.” In base a quale visione della vita, secondo quali principi? È proprio su questo che, per evitare sofferenze e conflitti interiori, bisogna far chiarezza dentro di sé prima di chiedere risposte ai test genetici. Ma in che modo e che tipo di formazione dovrà avere il consulente?
Le discipline prese in considerazione nel saggio sono la psicologia rogersiana, punto di riferimento per l’Oms e per le istituzioni sanitarie americane, e il counseling filosofico elaborato da Gerd Aschenbach. “Il consulente – scrive Sommaggio – si travestirà da contradditore, da Socrate: indosserà la maschera che più consente di non proporre “in positivo” alcuna opinione personale, alcun principio, alcuna azione. La sua funzione infatti consisterà unicamente nel contrasto, benevolo del ragionamento del suo antagonista. Tale dialogo consentirà di “testare” (ed eventualmente di modificare) la tenuta della connessione logica del racconto del consultante. La risposta alla domanda ‘perché sei qui?’ permetterà di incominciare a comprendere le ragioni che hanno mosso verso il test genetico; esercitando la funzione maieutica il consulente favorirà la parresia, cioè la comprensione della verità su se stessi e sulla differenza tra sé e la propria immagine di sé.” Il consulente cerca di avvicinare il consultato a una persona che, come scrive Foucault, “fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità e del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale”. Il traguardo della libertà personale e il ruolo del consulente sono illuminati da Sommaggio nel capitolo Sciogliere l’enigma che attraversa l’etimologia e il mito collegati alla parola persona. La parola greca pròsopon indica una maschera che non occulta ma rivela la persona; secondo una felice intuizione di Attilio Zadro “il volto del pensiero”. Nel mondo latino il termine persona e il verbo per-sonare mostrano come vi fosse un’identificazione con il volto che emette suoni, quindi con il linguaggio. Per Boezio la persona è “sostanza individuale di natura razionale”, definzione in cui pensiero greco e significato latino si incontrano. Ma è l’etimo etrusco phersu che rivela la sintesi per comprendere significato di persona e della stessa consulenza genetica. Phersu è Perseo il cui mito fornisce un modello per non restare pietrificati nella realtà, per non diventare cose ma essere persone. Un paradigma valido non solo per il consulente ma per ognuno di noi.

(Paolo Sommaggio ha 38 anni, vive a Padova, città in cui si è laureato e ha completato il dottorato di ricerca, insegna Filosofia del diritto, Metodologia della Scienza giuridica e Deontologia e Retorica Forense presso l’Università degli Studi di Trento. Avvocato e docente presso diverse Scuole forensi, è autore di numerose pubblicazioni di argomento giuridico e bioetico, tra le quali Il dono preteso. Il problema del trapianto di organi: legislazione e principi)

domenica 5 dicembre 2010

La paura dell'altro

Dalla Francia alla Germania, dall' Austria all' Olanda, nel nuovo spirito di orgoglio nei confronti della propria identità storica e culturale, i maggiori partiti trovano ormai ammissibile rimarcare come gli immigrati siano ospiti e in quanto tali debbano adattarsi ai valori culturali che caratterizzano la società ospitante: «Questo è il nostro paese: o lo amate o ve ne andate». I liberali progressisti, naturalmente, sono scandalizzati da questo razzismo populista. In ogni caso, uno sguardo più approfondito rivela in che modo la loro tolleranza multiculturale e il loro rispetto per l' altro (in termini di appartenenza etnica, di confessione religiosa, di sessualità) condivida con coloro che sono ostili agli immigrati una premessa di fondo: la paura dell' altro. Questa paura è chiaramente riconoscibile nell' ossessiva angoscia che i liberali hanno delle molestie. In sintesi, l' Altro è accetto soltanto nella misura in cui la sua presenza non è invadente, ovvero fintantoché l' Altro non è veramente Altro... Il mio dovere di mostrarmi tollerante verso l' altro significa soltanto che non dovrei mai avvicinarmi troppo a lui, non dovrei mai invaderne gli spazi. (...) Sempre più spesso nelle società tardo-capitaliste va prendendo piede il fondamentale diritto umano a non essere vessati o molestati, ovvero il diritto di restare a distanza di sicurezza dagli altri.
Slavoj Zizek

sabato 4 dicembre 2010

Più oltre

Sì, al di là della gente
ti cerco.
Non nel tuo nome, se lo dicono,
non nella tua immagine, se la dipingono.
Al di là, più in là, più oltre.

Al di là di te ti cerco
Non nel tuo specchio
e nella tua scrittura,
nella tua anima nemmeno.
Di là, più oltre.
Da La voce a te dovuta di Pedro Salinas

martedì 30 novembre 2010

L'Argent


In Piazza dei Signori a Padova luci e bancarelle prenatalizie, due ragazze parlano sedute sui gradini del Palazzo del Capitanio, un faro proietta l'immagine di una Madonna con bambino sulla facciata della chiesa di San Clemente. La gente corre infreddolita, forse verso casa, qualcuno raggiunge l’Mpx, l’hanno chiamata così, l’acronimo sta per Multisala Pio X. Comincia il film L’argent (Il denaro) di Robert Bresson, una storia lenta ma inesorabile, una storia di solitudine e rabbia scandita da pause, silenzi, dettagli. Al termine del film Umberto Curi propone alcune riflessioni sia sul regista che sul film. “Bresson – spiega – distingueva tra cinema come teatro filmato e cinematografo come linguaggio originale. Bresson procede per ellissi, per sottrazioni, non vediamo mai l’azione delittuosa, ne vediamo le premesse e le conseguenze; la recitazione è quasi cancellata, i personaggi si muovono ai limiti dell’autismo, sono “delle macchine di trasferimento delle parole”, anche la musica che in molti film è utilizzata come sottolineatura qui è assente tranne in una scena dove ha una precisa funzione narrativa; sono presenti invece e con un ruolo non secondario i rumori: una sirena, un mestolo che rotola sul pavimento, una porta che si chidue.” Alto e voce sicura, con alle spalle un palcoscenico vuoto e davanti a sé un centinaio di persone sparse tra le sedie rosse della sala, Curi prosegue nelle sue riflessioni. “Il denaro in questo film, per usare un’espressione di Lutero, è “lo sterco del diavolo” e non è l’oggetto ma il soggetto, il “dio invisibile”. Sono evocati due maestri del pensiero, uno è Georg Simmel che nella sua opera “Filosofia del denaro” descrive la sua capacità di trasformare qualsiasi qualità in quantità, l’altro è Karl Marx che nel primo libro de Il Capitale sostiene che il denaro non è mai solo un mezzo di pagamento della merce ma è un soggetto che tende ad autovalorizzarsi, cioè il denaro tende ad incrementare sé stesso, il denaro in sostanza non è un oggetto, un mezzo, come noi di solito pensiamo, ma un soggetto che usa noi come oggetti, come mezzi, per la sua autovalorizzazione.”
Fuori dal cinema rari passanti, in Piazza dei Signori i bar sono quasi vuoti, davanti al Pedrocchi un musicante dell’Est suona la tromba, il motivo è Besame mucho.

Nostalgia

Abbiamo sempre nostalgia di qualcosa
forse del tempo che passa
o del tempo che vorremmo vivere in un modo diverso
ma anche dei luoghi che non vedremo forse mai
e delle persone
e questa nostalgia ci accompagna
alle volte sembra non esserci
alle volte torna
come le onde del mare

venerdì 26 novembre 2010

I superficiali

Nicholas Carr nel saggio The Shallows. What The Internet Is Doing To Our Brains (I superficiali. Come Internet influisce sui nostri cervelli) sostiene, sulle tracce di McLuhan, che tendiamo a concentrare l' attenzione sui contenuti, mentre a contare sono piuttosto gli effetti «antropologici» che il mezzo tecnico in quanto tale produce su di noi, modificando in profondità il nostro modo di pensare e agire. Il cervello, afferma Carr citando le più recenti scoperte della neuroscienza, è un organismo plastico, che viene continuamente rimodellato dall' esperienza, potenziando certi collegamenti e «amputandone» altri, a mano a mano che non vengono più usati. A fare problema non è il fatto che non leggiamo più, bensì il fatto che leggiamo su vari tipi di schermo invece che su pagine a stampa: chi legge un libro impegna le aree cerebrali associate a linguaggio, memoria e processi visuali, chi legge una pagina web o un ebook usa le regioni prefrontali associate all' assunzione di decisioni e alla risoluzione di problemi (deve valutare se seguire o no un link, elaborare i diversi stimoli multisensoriali indotti dalla multimedialità, eccetera). Ecco perché stiamo «amputando» le abilità associate alla cultura del libro (ragionamento astratto e sequenziale, pensiero individuale lento e profondo...) per sviluppare quelle associate alla cultura dello schermo (saltare rapidamente da un argomento all' altro restando in superficie, reagire fulmineamente a stimoli che sollecitano contemporaneamente sensi diversi...). Di per sé ciò non è né bene né male, ammette Carr, se non che dovremmo essere consapevoli che ci stiamo trasformando in «macchine da lavoro» tagliate su misura per le esigenze della nuova industria culturale: Google funziona come una «macchina taylorista» che quantifica, parcellizza e svuota di senso il lavoro cognitivo, allo stesso modo in cui la catena di montaggio riduceva a mansioni ripetitive il vecchio lavoro artigianale. Siamo sicuri che delegare a dispositivi del genere le funzioni che un tempo affidavamo alla nostra memoria sia una scelta saggia?
Liberamente da La rivincita di McLuhan di Carlo Formenti in Corriere della Sera del 24 novembre.

Esclusione sociale


Bauman sostiene che l'"esclusione sociale" di cui oggi si discute non è che un'estensione del postulato di Schmitt secondo cui l'azione più importate di un governo è "identificare un nemico". Questo portò Bauman nel 1969 a sostenere che l'omicidio di mliioni di ebrei non era il risultato del nazismo né l'azione di un gruppo di persone malvagie, ma frutto di una moderna burocrazia che premiava soprattutto la sottomissione e in cui complessi meccanismi nascondevano l'esito delle azioni della gente. L'Olocausto, afferma, non è che un esempio criminale del tentativo dello stato moderno di perseguire l'ordine sfruttando il timore degli "stranieri e degli emarginati". "Una volta escluse dai governi le persone non sono più protette. Le società iniziano a manipolare il timore nei confronti di determinati gruppi. Nelle fasi di crisi del welfare state dobbiamo preoccuparci di questa caratteristica della società".
(da 44 Letters from the Liquid Modern World)

mercoledì 24 novembre 2010

Lo Scrivere

Lo Scrivere non è più oggetto di una Pedagogia (nel senso ampio del termine):
a) Come si sa, non vi è più la Retorica, cioè l' arte insegnabile (da Techne) di parlare per ottenere determinati effetti: il linguaggio non è più concepibile come dispositivo di effetto. Io non insisto sulla Morte istituzionale della Retorica. La retorica si è degradata, tecnocratizzata, è un insieme di "tecniche d' espressione" (che ideologia!), contrazione dei testi, writings, ecc. Ora, vi era un legame stretto fra l' insegnamento retorico e la scrittura degli scrittori di cui ho parlato.
b) Una forma superiore di questa Pedagogia (Psicagogia) dello Scrivere, non più al livello delle istituzioni, degli insegnamenti: c' era intercomunicazione degli scrittori tra di loro sui problemi della Pratica di scrittura. C' era una retorica inter pares: fatta di corrispondenze (Flaubert, Kafka, Proust), e, da un anziano a un più giovane: si trattava di "consigli", come il bel testo di Rilke, Lettere a un giovane poeta. Ora questi "consigli" sono scomparsi: non vi è più "trasmissione".
c) La forma "essenziale" del Consiglio allo Scrittore concerne, alla fine, non la pratica, ma la Volontà stessa di Scrivere: lo Scrivere come telos di una vita, cioè la risposta alla domanda "Devo scrivere? Continuare a scrivere?". Tutti rispondono (Flaubert, Kafka, Rilke): non è una questione di dono, di talento, ma di sopravvivenza; scrivete se siete sicuri che non scrivendo più deperireste. Per chiudere: a partire dalla mia esperienza oggi non vi è più alcuna richiesta di consigli pratici; ma viè sempre una forte richiesta di riconoscimento attraverso la scrittura. Ciò che è cambiato, che è divenuto desueto è non il desiderio di scrivere (è forse trascendente a una società definita), ma la perdita del sentimento che la scrittura è legata ad un lavoro, ad una pedagogia, ad una iniziazione. La pulsione (di scrivere) si manifesta in una sorta di innocenza non realista: rifiuto di pensare la Mediazione; il lavoro non è alla moda!
da La preparazione del romanzo , ed. Mimesis, una raccolta di corsi e seminari che Barthes tenne al Collège de France tra il 1978 e il 1980

domenica 21 novembre 2010

Ulivi sulla pietra

Le ombre degli ulivi sulla pietra, la carezza del vento, il ronzio di un'ape che si allontana, il cielo azzurro sui filari delle viti e la terra rossa, la scala stretta sale verso il cappuccio grigio e bianco di un trullo. Costellazioni familiari che s’incrociano come rami in un girotondo di ricordi e di nomi, in una partita aperta di sguardi, in un luogo sognato che ora accoglie nuovi sogni.
Alberobello, 20 agosto 2010

sabato 13 novembre 2010

Rivelati

La scelta è ampia. Chi prendere come esempio? Da chi imparare? Ma io scarto chi ha scritto prima di me, dimentico tutti, non invito nessuno a mettersi al mio fianco e a guidare la mia penna. Prendo su di me ogni responsabilità per le seicento pagine scritte e per le seicento non scritte, per tutte le confessioni e tutte le riserve. Per il discorso e per le pause. Tutto ciò che è scritto qui è sottoposto a due leggi, che riconosco e osservo: la prima: rivelati sino in fondo, e la seconda: tieni la tua vita per te sola. La prima è di un mio contemporaneo, la seconda è di Epicuro.
Nina Berberova, Il corsivo è mio

mercoledì 10 novembre 2010

Non saper dire

Proust fa uso di una figura retorica di cui si può dire che tutto il suo romanzo è l' illustrazione: la preterizione. Ma si tratta di una preterizione di un tipo molto particolare. Nel suo uso tradizionale, la preterizione consiste nel dire una cosa dichiarando di non volerla dire. È un' astuzia dell' arte oratoria che così finge di giungere più in fretta al termine: «Non ti dico...». Il narratore della Recherche, da parte sua, pratica la preterizione al passato. Descrive un paesaggio, poi una scena, mentre dichiara di non essere stato, allora, in grado di descriverli, di comprenderli, di dargli il loro vero significato. Gli erano sfuggiti. «Non ho saputo dire...». La parola letteraria cerca di riparare una perdita ritrovando (o dichiarando ritrovato) il «tempo perduto» che raccoglie luoghi e persone. L' opera letteraria salda un debito. Espia, in un certo senso, un tempo in cui la verità della sensazione non era stata riconosciuta, e dà voce a una percezione che sul momento non aveva potuto incarnarsi in un' espressione. Ma esistono descrizioni del paesaggio che non siano preteritive? L' espressione è sempre in ritardo sull' impressione. Proust lo rivela accentuando lo scarto tra i due momenti. Il presente della sensazione non può essere descritto che al passato. E per giunta questo passato è una finzione: quello che leggiamo è un romanzo. Il supremo miraggio letterario consiste nel rendere credibile il gesto che ricattura, nel far credere che lo scrittore non sia interamente passato accanto alla vita, e alla verità. Proust non è stato il primo né il solo a sperimentare il «disaccordo» tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che il linguaggio è in grado di dire. La distanza è troppo grande, la bellezza troppo inafferrabile, e lo spirito, per quanto faccia esso stesso parte di quel mondo che lo incanta, sente di non avere la forza di registrarlo e di fissarlo. Nella sua Histoire des artistes vivants, Théophile Silvestre riporta un' affermazione di Corot che esprime questa delusione con forza e semplicità: «Quando mi trovo in mezzo alla natura, provo rabbia verso i miei quadri». La retorica dell' ineffabile, il ricorso sistematico ai prefissi negativi degli epiteti (inesprimibile, indicibile, inaudito...) appartiene sia alla teologia negativa sia al vocabolario che celebra la bellezza del mondo dichiarandola fuori portata per i nostri mezzi espressivi. Questo vocabolario ha l' evidente effetto di segnalare un limite: designa l' ostacolo che ci vieta di metterci sullo stesso piano dell' essere che si manifesta a noi nella sua magnificenza o nella sua estrema delicatezza. Ha la funzione di segnalare che ci sentiamo votati allo scacco perché siamo sensibili a ciò che ci eccede. Ma ricorrendo al prefisso di negazione, che umilia il linguaggio, il nostro spirito si attribuisce implicitamente il potere di riconoscere l' insuperabile, e in tal modo di superarlo. «Saper salutare la bellezza», secondo l' espressione di Rimbaud, significa saper conservare nelle parole stesse il silenzio che ci è imposto da quanto va al di là della nostra esistenza. La descrizione del paesaggio è una delle occasioni in cui la parola letteraria può fare l' esperienza del proprio limite e allo stesso tempo elevarsi fino al «sublime». In Proust, il grido di dispetto è un momento preliminare, che si apre verso il futuro. Ma Proust conosce anche, come molti altri artisti, un grido finale: quello del Marsia scorticato che si intravede in secondo piano in una delle più belle scene pastorali di Claude Lorrain. Ricordiamo l' ultima frase del poema in prosa intitolato Il confiteor dell' artista: «Lo studio della bellezza è un duello in cui l' artista grida di sgomento, prima di essere vinto». Baudelaire introduce, in un poema in prosa, ovvero nell' opera d' arte stessa, il grido che confessa la disfatta dell' arte. È la versione moderna di ciò che, al di là dell' ineffabile, ritrova l' infandum: l' impronunciabile perché sacro. Jean Starobinski, da Le parole per raccontare la bellezza del mondo, traduzione di Monica Fiorini in Lettera internazionale n.105

lunedì 8 novembre 2010

Dediche

C' è qualcosa di nuovo, oggi, nella letteratura italiana. Qualcosa che prima non c' era: la gratitudine. Gli antichi erano ingrati. C' era in passato, come oggi, chi preparava i brodini agli autori, chi gli lavava i calzini e gli dava il bacio della buonanotte; ma loro, niente! Quando pubblicavano un libro, che so: le Ultime lettere di Jacopo Ortis, o I promessi sposi, non mettevano nemmeno una parola di ringraziamento. Qualche volta, il tipografo metteva di sua iniziativa la parola fine, e tutto finiva lì. Oggi è diverso. Oggi non c' è quasi esordiente, o recidivo delle patrie lettere, che non aggiunga alle eterne pagine del suo libro una mezza pagina, o una pagina, o anche due pagine fitte di ringraziamenti. A Gianna, a Pasquale, a Bibi; a Sara che quando mi vedeva pensieroso mi guardava un po' così; a Giuliano per i preziosi consigli. A Giusi (o: a Sandro) che mi incoraggiava. A Piero che mi preparava il cappuccino tutte le mattine. A Iole, la sua mano fresca sulla mia fronte. La lettura dei ringraziamenti è spessa più dilettevole, e istruttiva, di quella del libro. Purché non sia reticente. Vogliamo fare un esempio? «A Giovanni (o: a Clara), lui (lei) sa il perché». Eh no. Vogliamo saperlo anche noi che leggiamo, il perché. Ne abbiamo il diritto.
Sebastiano Vassalli

giovedì 4 novembre 2010

La Morte

Un giorno il Califfo manda il suo Visir a sentire cosa dice gente al bazar. Quello va e nella folla nota una donna magra, alta, avvolta in un gran mantello nero, che lo guarda fisso. Terrorizzato, il Visir scappa via. Corre dal Califfo e lo implora:
“Sire, aiutami! Al bazar ho visto la Morte. E’ venuta per me. Lasciami partire ti prego. Dammi il tuo migliore cavallo. Con quello, a tappe forzate, stasera sarò in salvo a Samarcanda”.
Il Califfo acconsente e fa portare il suo cavallo più veloce. il Visir balza in sella e galoppa via a spron battuto.
Incuriosito il Califfo va lui stesso al mercato. Nella folla vede la donna dal gran mantello nero e l’avvicina.
“Perché hai fatto paura al mio Visir?” le chiede.
“Non gli ho neppure parlato”, risponde la Morte. “Ero solo sorpresa di vederlo qui, perché il nostro appuntamento è stasera a Samarcanda.
fiaba indiana raccontata da Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra

La pioggia

La pioggia scompiglia i pensieri che corrono come gocce sui vetri.

lunedì 1 novembre 2010

La parola e la mola

Non era che una reverie. Fantasticavo che i metafisici, quando si fabbricano un linguaggio, somigliano agli artigiani che, invece di coltelli e forbici, passassero sulla loro mola medaglie e monete, per cancellarne l’esergo, l’annata, l’effigie. Quando hanno tanto fatto che non si vede più sulle loro monete da cento soldi né Vittoria, né Guglielmo, né la Repubblica, dicono: ‘Queste monete non hanno nulla di inglese, né di tedesco, né di francese; le abbiamo tratte fuori dal tempo e dallo spazio; esse non valgono più cinque franchi: esse hanno un valore inestimabile e il loro corso è stato esteso infinitamente’. Essi hanno ragione a parlare così. Con questo lavoro da pochi soldi le parole vengono portate dal fisico al metafisico. Si vede innanzitutto cosa ci perdono; non si vede subito cosa guadagnano. (...) In tre pagine di Hegel, prese a caso dalla sua Fenomenologia, su ventisei parole, soggetti di frasi importanti, ho trovato diciannove termini negativi contro sette termini affermativi. Gli ab, gli in, i non agiscono ancora più energicamente della mola. Vi cancellano d’un colpo solo le parole più salienti. Talvolta, a dire il vero, ve le capovolgono soltanto, e ve le mettono sottosopra.
Anatole France, Le jardin d'Epicure

sabato 30 ottobre 2010

La dea bendata

Nella cultura classica occidentale sono principalmente due i concetti di fortuna che dal mondo greco passano a quello romano: Tyche e Kairòs che diventano Fortuna e Occasio. Tyche, come racconta Pindaro, è irresponsabile delle sue decisioni e corre qua e là facendo rimbalzare una palla per significare che la sorte è cosa incerta. Per Platone invece Kairós è un tempo decisivo per il singolo: 
“Chi manca, oppure sfugge al suo kairós, distrugge se stesso: chi non agisce nel giusto momento, va in rovina”. Un rilievo del circa 160 d.C, conservato al Museo dell’Antichità di di Torino, rappresenta Kairòs con un ciuffo sulla fronte, per essere afferrato ma la nuca è calva perché quando si allontana non c’è modo di trattenerlo. La divinità, secondo quanto scrive Plutarco, fu introdotta nella Roma antica da Servio Tullio sesto re di Roma che edificò diversi templi in suo onore. Quello di Preneste (oggi Palestrina) era dedicato alla Fortuna Primigenia. Le fonti affermano che esistevano due statue della Dea Fortuna: una di bronzo dorato e una di marmo bianco nella posa di allattare Giove bambino, Grande Madre da cui tutti gli Dei provengono. La dea è per definizione cieca in quanto, come attesta Cicerone, ignora giustizia, misericordia ed è spesso causa di inimicizie e dissapri. Fortuna è anche divinità notturna legato all’andamento altalenante della luna crescente e calante. Luna/Fortuna che diventa in contesti diversi luna nel pozzo, ruota, timone, sfera (cerchio della luna ma anche la palla di Tyche) Nell’antichità non esistono immagini di una dea bendata. Bisognerà aspettare il Medioevo quando si sviluppa il tema della fortuna rappresentata come Kairòs con il lungo ciuffo di capelli sulla fronte da afferrare prima che sia troppo tardi. Il ciuffo si trasformerà, soprattutto tra Sei e Settecento, in una benda anche sulla base di una mutata concezione della sorte, vista come qualcosa che non coinvolge tutta la vita (si ricorda il capitolo ad essa dedicato da Machiavelli ne Il Principe) ma è più che altro legata alla possibilità di guadagnare molto. A livello artistico rimarrà un’immagine poco diffusa. Nell’ambito della mostra Dea Bendata, iconografia di un mito, in corso di svolgimento a Carpi, solo una stampa veneziana dell’inizio del Cinquecento di Anonimo ritrae tale soggetto. Risulta un’altra acquaforte di Dea bendata del 1624 del francese Pierre Brebiette. Essa appare inoltre in alcuni codici miniati, in una scultura della cattedrale di St. Etienne a Beauvais e in un affresco di scuola del Mantegna a Palazzo San Sebastiano a Mantova.
(Le informazioni contenute in questo articolo sono state raccolte e riscritte da La dea bendata. Lo sciamanesimo nell’antica Roma di Leonardo Magini, ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2008, e dal catalogo della mostra Dea Fortuna, iconografia di un mito, a cura di Manuela Rossi, Elena Rossoni e Silvia Urbini, Palazzo del Pio, Carpi, 17 settembre 2010 – 9 gennaio 2011)

giovedì 28 ottobre 2010

Ma la poesia

Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino; noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.
John Keating ne L'attimo fuggente, regia di Peter Weir

martedì 26 ottobre 2010

Tre volte trenta


Giulia dormì poco quella notte: le emozioni si affastellavano nella mente, riscaldavano il suo corpo che ascoltava il respiro quieto accanto a lei. Temeva che i suoi pensieri facessero rumore mentre rincorrevano il desiderio di poter raccontare lei stessa quella storia, di carpirne i segreti più reconditi, e allora cercava di stare ferma il più possibile contando, ad ogni risveglio, le ore che mancavano al mattino. Lo voleva perfetto: niente doveva turbare quell’equilibrio, l’armonia che non aveva mai osato sognare. Aveva sempre pensato, forse a causa dei troppi libri letti, che la lettura di vecchie lettere dovesse essere un’attività per lo più crepuscolare, quando la sensazione di intimità e di silenzio si fa più concreta, avvolgente. Lì, però, in quel luogo sospeso in un tempo non definito, con la presenza rassicurante e stimolante di un sorriso comprensivo che solo ora conosceva davvero, ogni momento poteva essere vissuto indipendentemente dalla luce esterna, dai rumori che in quel piccolo paradiso erano per lo più un accompagnamento musicale allo svolgersi di quella piccola e speciale attività intellettuale. Cullandosi nella sicurezza del domani stimolante riuscì infine ad addormentarsi serena, rilassata in quel calore nuovo.
Il mattino aveva un’aria tranquilla e al tempo stesso foriera di grandi novità: aprendo gli occhi Giulia respirò piano, crogiolandosi nel tepore che la avvolgeva, iniziando piano a riassaporare le sensazioni della giornata e della notte precedenti. Le imposte lasciavano entrare un po’ di luce, quel tanto che bastava a riconoscere i contorni di quanto era nella stanza. Con un sorriso ancora incerto sbirciò la cornice con la fotografia sul comò e le parve che lo sguardo dei nonni non fosse meno bonario del giorno prima. Lottando un po’ con il desiderio di rimanere immobile e leggermente incosciente, poco alla volta percepì i rumori ed i profumi della casa, soprattutto i passi sulle scale accompagnati da un inconfondibile aroma di caffè. Ebbe la certezza che quello sarebbe stato uno dei risvegli migliori della sua vita quando vide il sorriso, dietro il piatto, improvvisatosi vassoio.
Isabella Gianelloni, Tre volte trenta, Piazza Editore

mercoledì 20 ottobre 2010

Castel del Monte


I paesi si susseguono come cani bianchi accoccolati lungo la strada, le radici degli alberi giocano con i sassi polverosi di terra. Castel Del Monte è un occhio solitario che guarda la pianura. Nel cortile ombra e luce. Le sue scale a chiocciola disorientano il visitatore, si carambola nelle stanze chiedendosi quali segreti celi la misteriosa fortezza a forma d’ottagono. Non è un labirinto eppure lo è, non si sa che direzione prendere fino a che da soli non ci si trova al centro del cortile e si è costretti ad alzare gli occhi verso il cielo.

martedì 19 ottobre 2010

Maliborghi


Nella terra di Andrea Zanzotto e Luciano Cecchinel, una piccola enclave poetica a sinistra del Piave, il poeta Luciano Caniato, nativo del Polesine ma coneglianese d’adozione, ha dato alla luce la sua ultima creatura e l’ha intitolata “Maliborghi” (ed. Il Ponte del Sale, pp.124), un viaggio in versi tra le città di un “Veneto barbaro, non di muschi e di nebbie, ma girone che lavora al fuoco d’ignoranze che non comprendono e non vogliono capire.” “Qui a Nordest c’è una sofferenza altissima – racconta Caniato, la gente si è dimenticata da dove viene, ha perso le sue radici contadine e non riesce a trovarne di nuove nel culto dell’immagine, degli schei, del cemento. Io stesso dopo cinquant’anni non sono riuscito ad “appaesarmi”, a capire ed essere capito fino in fondo da questa città.” I versi di Maliborghi non descrivono solo una realtà esterna ma sono anche la metafora di una condizione interiore capace di cogliere punte di dolore, ustioni dell’anima attraverso l’uso sapiente della parola, delle metafore, dei calembour in dialetto, italiano, latino. A Padova, scrive Caniato, ”Tirerò dritto, non guarderò nuvole di Giotto, negozi dell’oblio, strade dove il mio folle stare senza dare ombra accumulò penombra e rese buio.” Conegliano è “Fitta corona di spine. Piaghe di case, di case, di sputi di stopposo verde. Cactus di condomini a siepi sui contesti asfalti. Svaporato il bello bagnaocchi, leso il cielo delle quinte. Spari di motori. Centrati sonni.” Venezia “Persa in lagune storte e tersa in tanfi, colomba-tomba, Venéssia bonba.” “Mestre, interporto del nulla, latte di fanciulla che campiva. E ancora, sfinita dall’oblio, intrepida signora e crux.” I versi di Caniato combattono con un territorio esterno-interno di inquietudini: “Qui il paesaggio nihil, nada, andato. Fracassato il bello”. “Questo davvero perdersi in nuvoli edilizi. E fabbrichine e occhi di cantine. Quasi feline gatte in forme da rodeo. E vezzeggiati bamboli dài-dài ciapeghedéntro. Estdelnord fittopadano: ex demo, ex cristiano et iuvenes al confino d’un sé telefonino. Nonostante il mio ferirmi-friggere in poesia e il farmi in afasia un nido negli esili.” Un viaggio che pare sia stato scritto per specchiarsi o per cominciare nel solitario autoritratto che chiude la raccolta: “C’è chi nasce Po o Adige o Canale. Io sono nato fosso, macero, golena. Vuoi mettere specchiare cieli, contare i pesci del silenzio, avere erba intorno, stare fermi immobili, fare il morto, sentirsi cuore che batte, idea che spinge, essere storto o dritto a seconda che la rana dell’anima si muove, la libertà d’essere nessuno?”
(Luciano Caniato è nato a Pontecchio Polesine nel 1946. Poeta e scrittore, vive a Conegliano. Opere in poesia: E maledetto il frutto (1980); Pensierimi (1990); Nevi (1990); La siora nostra morte corporale (1992); Di memoria e di pietà (1998); Medajùn et alia (2002). Opere teatrali: Cardiogramma (1999); L’anima sui cop (2001); Cima nella neve (2010).)

sabato 16 ottobre 2010

Religione d’impresa

L’imprenditore o il manager chiede ai propri dipendenti e collaboratori non solo una prestazione lavorativa ma anche un’adesione sentimentale, personale, emotiva. Missione, appartenenza, credo, fedeltà, valori, sono termini tratti dal linguaggio religioso per motivare, gratificare, conquistare le risorse umane. Scrive Giampaolo Azzoni: “La mia ipotesi è che le religioni aziendali rappresentino una prova della celebre (e discussa) tesi risalente ad Émile Durkheim secondo la quale il modo religioso si trasforma, ma accompagna necessariamente l’organizzazione sociale: “Il y a […] dans la religion quelque chose d’éternel qui est destiné à survivre à tous les symboles particuliers dans lesquels la pensée religieuse s’est successivement enveloppée.”
“Quelle différence essentielle y a-t-il entre une assemblée de chrétiens célébrant les principales dates de la vie du Christ, ou de juifs fêtant soit la sortie d’Égypte soit la promulgation du décalogue, et une réunion de citoyens commémorant l’institution d’une nouvelle charte morale ou quelque grand événement de la vie nationale?”
Parlando di religioni aziendali, mi discosto però da Durkheim su un punto importante: Durkheim si riferiva alla società in quanto collettività generale, io invece mi riferisco alle aziende, alle società commerciali.” Religioni aziendali, intervento al Convegno di sociologia del diritto in onore di Silvana Castignone su Diritto/Diritti, Morale/Morali, Religione/Religioni, Università degli Studi di Cagliari 19-20 settembre 2003). C’è la necessità per l’impresa, sia essa un’azienda che produce sci o un giornale, un supermercato o una tv, di proporre ai suoi “fedeli” la gratificazione di aver scelto il miglior mondo aziendale possibile: famoso, internazionale, competitivo, verde, etico, innovativo, unico. La bandiera-brand protegge, rassicura, identifica. L’adesione si realizza attraverso riti collettivi, promesse, ricompense, abitudini, ricorrenze, comunicazioni, accessori, video, siti, socialnetwork, house organ, modi di vestire e architetture. “’Essere praticante di una religione aziendale – prosegue Azzoni - è un tutt’uno con l’essere parte attiva della propria comunità. In fondo, si potrebbe sostenere che nella post-modernità le religioni aziendali siano modalità residue per una pratica tradizionale in cui believing e belonging tornino a coincidere. (…). Ciò che è più rilevante per il tema delle religioni aziendali è che, secondo le ricerche di Collins / Porras, le “visionary companies”, come J&J con il suo Credo, hanno una peculiare cultura interna: una “cult-like culture”. Infatti, le “visionary companies” presenterebbero quattro caratteristiche comuni con i culti: ideologia sostenuta in modo fervente (“fervently held ideology”); indottrinamento (“indoctrination”); pressione alla conformità valoriale (“tightness of fit”); • convinzione di essere speciali e superiori (“elitism”). Poiché hanno “cult-like culture”, le “visionary companies”, in modo più simile ad una religione che alla media delle altre aziende, tracciano netti confini tra chi è “inside” e chi “outside” considerando l’appartenenza attiva come il meta-valore fondamentale, il cui possesso è più importante delle stesse competenze professionali”. Veniamo quindi ad alcuni esempi di credo. La Danone alla voce entusiasmo specifica: “I limiti non esistono, ci sono solo ostacoli da superare. Entusiasmo significa audacia, passione, voglia di superare. È il contrario del conformismo burocratico Significa desiderio e capacità di assumersi rischi, esplorare nuovi sentieri pieni di sorprese ed imprevisti; superare gli ostacoli. Implica libertà di spirito ed assenza di paure e pregiudizi. Passione. Sinonimo di convinzione, primordialità, indissolubilità, volontà, attrazione, superarsi, superare e raggiungere il culmine. È il desiderio fisico, ottimista ed entusiasta di crescere, di essere il primo.” Per Zuegg i comandamenti della Corporate Social Responsability sono: collaboratori uniti attraverso la condivisione della missione e visione aziendale; collaboratori che vivono con e per l’azienda; impegno e passione per il proprio lavoro; grande spirito di squadra ed entusiasmo; forte unità nelle decisioni, nel successo e nella sconfitta; competenza e innovazione; proattività ed energia nell’esprimere la propria opinione; considerazione dell’errore come una parte del miglioramento, non come un fattore per polemizzare o ammonire.” La religione aziendale (corporate religion) il più delle volte è diretta sia verso l’interno dell’azienda che verso l’esterno: “Clienti trasformati in fedeli, comportamenti di consumo analoghi ad un rito e dipendenti come officianti: caso esemplare di “corporate religion” è, secondo Kunde, quello dell’industria di motociclette Harley-Davidson” (ibidem). Un altro esempio è Diesel che recentemente ha lanciato la campagna Be stupid (nel senso di fresco, non conformista, sorprendente) accompagnandola con diversi claim diretti ad entrambe le categorie di credenti (collaboratori/clienti finali): you’ll create more, you’ll care less, you’ll eat better, you’ll make more friends, trust stupid, you’ll spend more time with your boss. A margine una breve sottolineatura sull’uso seduttivo della lingua inglese in ambito aziendale, una sorta di lingua sacra, un codice di appartenenza a un mondo evoluto, moderno (postmoderno), liquido, frattale, dinamico. In questa direzione tra i valori recentemente acquisiti da molti credi aziendali vi è la flessibilità che, da una prospettiva diversa, secondo Giovanni Leghissa “Porta con sé la marcata personalizzazione dei rapporti gerarchici all’interno dell’impresa. Favorita da tutte le procedure comunicative in cui sono in gioco fattori come la motivazione e l’adesione alla cultura (culto) dell’impresa, tale personalizzazione impedisce che la negoziazione del proprio ruolo avvenga in concomitanza con la definizione di spazi conflittuali misurabili con parametri esterni a quelli fatti valere dall’impresa stessa. (…) Imprenditore di se stesso, ciascun attore in seno all’impresa deve mostrare di sapersi posizionare entro la rete di relazioni che costituisce l’organizzazione, grazie alla gestione autonoma sia della differenza che lo separa da tutti gli altri attori, sia della differenza che separa le proprie prestazioni presenti da quelle passate.” (Formazione imprese controllo: ovvero la pervasività delle retoriche del management, in “aut aut” 326, 2005, pp. 19-36). Un altro valore “fluido” nelle aziende è la creatività, uno dei cardini delle politiche di Total Quality Management: “È di fondamentale rilievo per le imprese – scrivono Maria Colurcio e Cristina Mele – sviluppare approcci gestionali sistematici che consentano loro di stimolare la creatività all’interno della propria organizzazione e di valorizzarne i talenti al fine di ottenerne, nel medio lungo periodo, miglioramenti del clima e della soddisfazione interna e incremento delle performance di mercato attraverso lo sviluppo di proposizioni di valore in grado di sprigionare valore per il cliente. (...) I dipendenti rappresentano una tipologia di stakeholder dell’impresa particolarmente sensibile a valori differenti da quello esclusivamente economico.” (Intervento Quality management, creatività e talenti, al convegno Il marketing dei talenti, Roma, 5-6 ottobre 2007). In conclusione ogni azienda promuove il proprio credo e i propri valori in relazione ai suoi obiettivi perché “il lavoro -come scriveva Pascal Faucher già nella prima metà dell’Ottocento - è la provvidenza dei popoli moderni; ha per loro il ruolo della morale, riempie il vuoto delle credenze e passa per il principio di ogni bene”. Culti diversi all’interno di un’unica religione che John Maynard Keynes definiva così: “Capitalism is the extraordinary belief that the nastiest of men for the nastiest of motives will somehow work for the benefit of all.”

venerdì 15 ottobre 2010

Il volto e l'abito della verità

Nel suo saggio “Breve storia della menzogna” Jacques Derrida cita questo passo di Montaigne: "Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in una condizione migliore. Di fatto prenderemmo per certo il contrario di quello che dicesse il bugiardo. Ma il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito.” (Montaigne, Des menteurs, in Essais, Libro I, Capitolo IX, Gallimard, Parigi, 1962, p. 38). Robert Musil propone un ragionamento analogo: “Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio." (da: Der Mann ohne Eigenschaften, Berlin 1931, S.54). Forse esiste una stretta parentela tra menzogna e stupidità. Ma quando parliamo di una verità che ha una sola faccia, un solo abito, una sola strada, di che cosa stiamo parlando? Di un mondo fuori di noi determinabile, riconoscibile, calcolabile, di un senso etico innato, di una fede, di un io che comprende il tutto o di un’intuizione "indicibile" sul senso dell’esistenza? In L’arte di vivere senza verità. Perché oggi ha vinto il cinismo Michel Foucault prosegue il cammino: "Quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che "niente è vero", come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l’amore della verità e l´estetica dell'esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell'arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità." Anche in questo caso la parola verità rivela che la verità (a-letheia) tende a restar non-nascosta solo in parte. Riflessione che potrebbe estendersi al linguaggio, insufficiente nel dire il tutto di qualcosa. Sulla strada della non completezza Vladimir Jankélévitch: "Il volto della verità è sfumato, meno preciso di quello della menzogna. Se c'è del vero nella menzogna, benché non sia il vero, questa verità partitiva costituisce una testimonianza indiretta ma preziosa sulla verità totale. Come riconoscere la verità? La verità ha la sua maniera, anch'essa spesso contraddittoria fino all'assurdo. La mia conoscenza non è mai una conoscenza completa, totalmente adeguata. In questo senso il filosofo ci annuncia che essa è umile" (La menzogna e il malinteso, Raffaello cartina Editore, Milano, 2000). Più tumultuoso e destruens Nietzsche:"Che cos'è allora la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che, migliorate poeticamente e retoricamente, sono trasposte e abbellite e che, dopo un lungo uso, sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni che abbiamo dimenticato siano tali, metafore divenute consunte e svuotate della forza e dei sensi, monete che hanno perso la loro immagine e che vengono ora considerate solo come metallo non più come monete" (Über Wahrheit und Lüge
im außermoralischen Sinn
).

mercoledì 13 ottobre 2010

Farò della mia anima uno scrigno

Farò della mia anima uno scrigno per la tua anima,
del mio cuore una dimora per la tua bellezza,
del mio petto un sepolcro per le tue pene.
Ti amerò come le praterie amano la primavera,
e vivrò in te la vita di un fiore sotto i raggi del sole.
Canterò il tuo nome come la valle canta l'eco delle campane;
ascolterò il linguaggio della tua anima
come la spiaggia ascolta la storia delle onde.
Kahlil Gibran

domenica 3 ottobre 2010

Vite possibili

“Se le persone scarsamente sensibili e intelligenti tendono a far del male agli altri, le persone troppo sensibili e intelligenti tendono a fare del male a se stesse: chi è troppo sensibile e intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi o ci consente di scegliere, è consapevole della pluralità di cui siamo fatti non solo con una natura doppia, ma tripla, quadrupla, con le mille ipotesi dell’esistenza. Questo è il problema di coloro che sentono troppo e capiscono troppo: che potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi siamo.” Queste parole di Antonio Tabucchi scritte nella prefazione di Fragments di Marilyn Monroe fanno venire in mente altre righe di Robert Musil ne L’uomo senza qualità: “Poteva soltanto dire che si sentiva assai più lontano che in gioventù da quello che aveva voluto essere, ammesso che lo avesse mai saputo. Con meravigliosa acutezza egli vedeva in sé- ad eccezione del saper guadagnare denaro, che non gli occorreva – tutte le capacità e qualità che il suo tempo apprezzava di più, ma aveva perduto la possibilità di applicarle; e poiché in fin dei conti, se ormai anche i giocatori di calcio e i cavalli hanno genio, soltanto l’uso che se ne fa può ancora salvarne il carattere particolare, decise di prendersi un anno di vacanza dalla vita per cercare un uso appropriato delle sue capacità”.

sabato 2 ottobre 2010

Odile Decq


Continua a far discutere la Biennale Architettura curata da Kazuyo Sejima. Nel terzo incontro dei sabati dell’architettura, svoltosi lo scorso fine settimana, è stata Odile Decq a lanciare il guanto e a lasciare attonito Dietmar Steiner, conduttore dell’incontro, che le chiedeva sorridendo un "amarcord" del 1996 quando sotto la direzione di Hans Hollein fu insignita del Leone d’Oro: “Non voglio parlare del passato – ha affermato la Decq che ha disegnato il Macro di Roma e insegna all’ Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi. Vorrei che discutessimo di questa Biennale; secondo me a differenza della rassegna del 1996, che guardava al futuro anche nel titolo “L’architetto come sismografo” e alla quale erano stati invitati architetti poco noti fra cui Fuksas e la stessa Sejima a mostrare i loro progetti per il domani, oggi a Venezia visitiamo una mostra che guarda al presente. Va bene incontrarsi – Meet in architecture- ma cos’altro? Qui ci sono molti artisti ma l’artista non è coinvolto nel futuro del mondo, è preso da sé stesso, dalla sua arte.” Più cauto Hans Hollein, curatore della Biennale 1996: “L’unica cosa che posso confermare è che si tratta di una mostra legata al presente e non al futuro. Sul punto non vorrei rilasciare altre dichiarazioni”. Critiche che si aggiungono alla posizione di Paolo Portoghesi che nel precedente incontro dei Sabati dell’Architettura non usò mezzi termini: “L’architettura è qualcosa di molto diverso da ciò che viene rappresentato in questa mostra e dai media. L’affermazione individuale delle archistar produce contenitori, eventi, installazioni, che vorrebbero essere arte ma spesso non riescono ad essere né arte né architettura” In controtendenza Gianni Pettena, tra i fondatori dell’architettura radicale italiana: “Non sono d’accordo né con Portoghesi né con la Decq, ogni generazione ha il suo modo di esprimersi. Se a una persona piacciono le fughe di Bach forse non apprezzerà alla stessa maniera le composizioni di John Cage ma questo non implica che le une siano migliori delle altre. C’è un’architettura legata alla storia ma c’è anche un’architettura che non è legata solo alla funzione ma è pensiero fisicizzato, emozione trascritta in spazi.”

lunedì 27 settembre 2010

Seduzioni

Una coppia di mezza età e qualcosa di più, anni già usati ma portati bene, prende il sole in riva al mare. Vicino a loro una coppia più giovane con una bambina evidentemente disturbata che alterna improvvisi sorrisi a gesti aggressivi.
L’uomo della coppia ha con sé due articoli, uno di Zygmunt Bauman, non Barman come scritto per un refuso, e l’altro di Mario Vargas Llosa dedicato al pastore protestante, della sconosciuta cittadina di Gainsville in Florida, che in occasione dell’anniversario dell’11 settembre ha proposto di bruciare il Corano. Entrambi gli articoli evidenziano l’esistenza di confini, da una parte, e fluttuazione, sfilacciamento, annebbiamento dei confini, dall’altra. Scrive Bauman: “In seno ad un’organizzazione, pertanto, una categoria fa di tutto per imporre all’altra, quella che vuole assoggettare a se stessa, un codice di comportamento il più possibile pervasivo e dettagliato, e che idealmente dovrebbe rendere monotamente regolare, e quindi del tutto prevedibile, la condotta dei gruppi così “fissati”. La stessa categoria, per contro, si sforza di tenersi libere le mani ( e le gambe…), cosicché le sue mosse rimangono impossibili da prevedere e continuano a sfidare ogni calcolo e pronostico della categoria condannata alla subordinazione. Potremmo dire che la strategia precipua di ogni lotta di potere consiste nello strutturare la condizione dell’avversario e al tempo stesso “destrutturare” la propria. Ciò a cui puntano le parti che si contendono il potere è lasciare i loro subordinati senz’altra scelta che accettare remissivamente la routine che i loro superiori, attuali o futuri, intendono imporre. Ora i contesti in cui si svolge la lotta di potere hanno subito una trasformazione veramente drastica con il passaggio dalla fase “solida” all’attuale “liquida”: coloro che usano questa terminologia sono in cerca di aggregazioni (alleanze, collaborazioni, coabitazioni, squadre costituite ad hoc) tenute insieme da legami laschi e informali che si possono quindi assemblare, smontare e rimontare, come richiedono le circostanze sempre mutevoli, cioè con un preavviso breve o senza preavviso. Questo contesto fluido dell’agire è quello che meglio si adatta alla loro percezione del mondo circostante come “molteplice, complesso, in rapido movimento”, “ambiguo”, “vago” e “plastico”, incerto, paradossale, persino caotico”. Le organizzazioni aziendali di oggi (sempre che sia ancora permesso usare questa espressione, che Ulrich Beck definirebbe un termine “zombie”) tendono a essere deliberatamente costruite con all’interno un elemento di disorganizzazione. Meno sono monolitiche, più sono rapidamente modificabili, meglio è. I manager hanno accantonato la “scienza gestionale” che suggerisce regole di comportamento permanenti e stabili. Al pari di ogni altra cosa, in un mondo liquido come il nostro, ogni sapere e know-how non può che invecchiare rapidamente e altrettanto rapidamente consumare i vantaggi che offriva un tempo. I manager preferiscono “analizzare la rete di possibilità”, liberi di fare una breve pausa ogniqualvolta l’occasione sembri bussare alla loro porta, e di rimettersi in movimento non appena va a bussare altrove. Non vedono l’ora di giocare al gioco dell’incertezza; preferiscono il caos all’ordine.”
Scrive Llosa: “ Gli effetti non previsti della glorificazione della cultura dello spettacolo – i suoi danni collaterali – sono diversi, e, in particolare, il protagonismo che nella società di oggi hanno raggiunto i buffoni. Questa era una professione nobilissima in passato: divertire, trasformando se stessi in una farsa o commedia ambulante, in un personaggio immaginario che distorce la vita, la verità, l’esperienza, per far ridere o sognare il proprio pubblico, è un’arte antica, complessa e ammirevole, da cui sono nati il teatro, l’opera, le tragedie e forse il romanzo. Ma le cose cambiano valenza quando una società stregata dal bisogno di divertirsi, come suo primo scopo, esercita una pressione che modella e trasforma a poco a poco i suoi politici, i suoi intellettuali, i suoi artisti, i suoi giornalisti, i suoi pastori o sacerdoti, e perfino i suoi scienziati e militari, in buffoni. Di fronte ad un simile spettacolo, molte cose cominciano a disfarsi, i confini tra verità e menzogna ad esempio, i valori morali, le forme artistiche, la natura delle istituzioni e, ovviamente, la vita politica. Non sorprende perciò che in un mondo caratterizzato dalla passione per lo spettacolo, Damien Hirst, un signore che tiene rinchiuso uno squalo in una vasca di vetro piena di formaldeide, sia considerato un grande artista e venda tutto quello che la sua astuta inventiva fabbrica a prezzi sbalorditivi; o che le riviste di maggior diffusione nel mondo, e i programmi più popolari, siano quelli che mettono a nudo davanti al grande pubblico gli aspetti più intimi dei personaggi famosi, che, chiaramente, non sono quelli che si distinguono per le loro conquiste scientifiche o sociali, quanto piuttosto quelli che per gli scandali, gli eccessi o le stravaganze da strada, riescono a guadagnare quei quindici minuti di popolarità che Andy Warhol, un’altra delle icone della civiltà dello spettacolo, predisse per tutti gli abitanti della società del nostro tempo.”
Il bisogno di divertirsi, di leggere notizie strane non è in fondo un modo per compensare/dimenticare la “normalità” delle vite assoggetate alle norme dei gruppi di potere descritti da Bauman, che non vanno naturalmente pensati solo in scala aziendale. L’uso della “stranezza”, della “buffonaggine” è il modo in cui i mezzi di comunicazione esercitano il loro potere in termini di audience e di condizionamento, la “stranezza”, l’imprevedibilità è anche la nota, suonata ad un altro tono, dagli artisti e dai manager per tenere sulla corda il loro pubblico, in generale dal seduttore nei confronti del sedotto. Una riflessione più generale sui limiti: il superarli o ignorarli è anche un’aspirazione esistenziale dell’uomo che dall’ordinario, dalla ripetizione, tenta di sfuggire e quando non ci riesce è prigioniero di qualcuno, qualcos’altro, ma lo è anche quando ci riesce. Un bisogno conosciuto da chi detiene il potere e, quindi, sfruttato.
L’uomo era immerso in queste riflessioni sulle quali avrebbe forse un giorno scritto un saggio, quando si accorse della bambina. I due si sorridono, l’uomo d’un tratto le lancia il berretto. La bambina lo raccoglie, ride con aria d’intesa, poi va da lui, glielo mette in testa e glielo stropiccia sulla faccia. Dopo un po’ si allontana di colpo incupita. La moglie dell’uomo gli si rivolge irritata con voce dura:”Sai che non devi farmi queste cose. Sono troppo sensibile, mi fa male vedere una piccola così; ho già le mie angosce e non ho bisogno di vederne altre.” Ci sono persone, scriveva Bernanos, così sensibili che non possono veder soffrire neanche una bestiola e la schiacciano subito per non vederla più soffrire. Ma l’uomo non pensa che sua moglie sia una “sensibile alla Bernanos”, il suo errore è stato di non tenere per sé quel pensiero. Gli vengono in mente i versi di Marco Lodoli: Bisogna avere un cuore di ferro / come Ulisse, per vivere./ Penelope è davanti a noi e piange / e noi dobbiamo tacere, non possiamo dire niente, / non possiamo commuoverci. / È tutto così chiaro / eppure non possiamo rivelarci.” Poi si mette il berretto in testa e le dà un bacio.
(le citazioni in corsivo sono tratte da un racconto di Claudio Magris)

domenica 19 settembre 2010

Pordenonelegge: da Derrida a Facebook

Ieri a Pordenone un serpente di folla stringeva il Teatro Verdi sotto una pioggia battente. Alle tre erano già in coda per non perdere l’intervento “I miti del nostro tempo” del filosofo pop Umberto Galimberti. La fila copriva anche l’entrata del ridotto dove si entrava per assistere a “Ripensare Derrida” con Maurizio Ferraris e Silvano Petrosino. Per questo secondo appuntamento di Pordenonelegge, invece, una settantina di persone in sala e posti ancora liberi. Ferraris ha preso le mosse da Rorty e dal suo libro del 1979 “La filosofia e lo specchio della natura” che mostra tre connotati del postmoderno che sono stati poi manipolati dai regimi populisti: la solidarietà che prevale sulla verità, il non essere attaccati alle proprie tesi, anzi il prenderle anche un po’ in giro, il desiderio come qualcosa di rivoluzionario (Deleuze: la rivoluzione desiderante). Si è poi soffermato sugli “Spettri di Marx” e sugli amanti di questi spettri che si comportano in modo analogo al marito descritto da Cartesio ne Le passioni dell’anima (l’importante è che il beneamato non ritorni davvero):“Quando, per esempio, un marito piange la moglie morta che tuttavia, come accade talvolta, gli dispiacerebbe di veder resuscitare, può accadere che il suo cuore sia stretto dalla tristezza eccitata in lui dall’apparato funerario e dalla mancanza di una persona alla cui conversazione era abituato (…) ma nel segreto del suo cuore egli prova un’intima gioia, la cui emozione ha tanta forza da non poter essere diminuita dalla tristezza che l’accompagna.” “Nei manuali – ha continuato Ferraris – Derrida è citato tra i postmoderni, la decostruzione era una reazione al mondo solido compatto che la precedeva, ma nel mondo attuale dove tutto è decostruito, a partire dalla politica alle comunicazioni, agli affetti, c’è bisogno di “ricostruire” la decostruzione attraverso vari passaggi. Secondo Ferraris è necessario chiarire – in questo senso imbarbarire – il pensiero di Derrida che era un intellettuale così raffinato da non enunciare mai le proprie tesi in modo diretto preferendo suggerirle attraverso i ragionamenti. A proposito del primato dell’etica sull’ontologia che accomuna Derrida a Levinas e Rorty, va detto che non si può fondare un’etica senza un’ontologia: “Se non ammetti l’esistenza del mondo esterno non c’è più nessuna differenza tra sognare di fare una cosa e farla realmente. È così che Feyerabend può arrivare ad affermare che non ci sono criteri oggettivi per ritenere il sistema copernicano superiore a quello tolemaico, che l’amministrazione Bush sosteneva proposito dell’Iraq “Ormai siamo un impero, creiamo noi la verità”, che la foto di un Giovane Umberto I è più volte utilizzata come una foto giovanile di Nietzsche” (si veda a tal proposito l’interessante articolo di Ferraris http://members3.boardhost.com/nietzsche/msg/1165404051.html). C’è qualcosa di “duro”, di irriducibile nel mondo esterno. Quando Derrida dice “nulla esiste al di fuori del testo” si rende necessario “ricostruire” la frase in questo modo “nulla del mondo sociale esiste al di fuori del testo”. Per Silvano Petrosino in Derrida è più rilevante il gioco del pensiero della formulazione di una tesi: “Il problema non è esporre una tesi e vincere sull’altro, ma il tentativo di pensare, pensare non è formulare una tesi ma è movimento di pensieri. Marino, un caro amico, dice una cosa bellissima: “Ogni volta che leggo i testi di Derrida mi viene voglia di pensare, un grande autore è colui che ti sollecita, ti stimola, forse la parola giusta è fecondità. Mi accade anche con Lacan che però regolarmente non capisco. Ci sono invece certi scrittori anche famosi e certe conferenze, spero non questa, che ti gettano in uno stato di depressione e ti fanno venire voglia di urlare “Voglio una donna” come Ingrassia sull’albero in Amarcord di Fellini.” Petrosino si è poi soffermato sul complesso rapporto fra Derrida e la sua “judéité”, le serrate critiche a Levinas e poi la sua sorprendente dichiarazione “Io sono pronto a sottoscrivere tutto quello che dice Levinas”. Derrida coglie levinasianamente in una lettura talmudica un concetto fondamentale: “La coscienza non è il ripiegamento su di sé ma è l’urgenza di una destinazione all’altro”. Il tema della destinazione è uno die grandi temi derridiani (La carte postale), la coscienza è al tempo stesso coscienza e alterocoscienza, apertura. Petrosino e Ferraris hanni quindi sfiorato i temi della decisione, dell’opinione radicale, dell’animalità e della comprensione (per Sant’Agostino non c’è comprensione senza una sorta di simpatia). Purtroppo l’incontro è stato bruscamente interrotto, proprio quando stava entrando nel vivo per lasciare spazio ad altri appuntamenti in una logica televisivo-sequenziale poco derridiana e per niente raffinata, ma molto postmoderna. Teatro esaurito, invece, per Umberto Galimberti che ha riproposto le sue tesi sul dominio della tecnica che esclude l’uomo dalla responsabilità e lo rende psicoapatico e depresso. Un processo che è cominciato con la seconda guerra mondiale. Gitta Sereny ha intervistato per 170 volte Franz Stangl comandante del campo di concentramento di Treblinka, chiedendogli che cosa provava quando ordinava lo sterminio di esseri umani. Stangl alla fine rispose: “Io ero un perfetto esecutore di ordini”. Nell’era della tecnica per essere riconosciuto devi far bene le cose, il resto non è di tua competenza e non sei responsabile di quello che fai. Il filosofo Günther Anders, autore nel ’56 del libro L’uomo è antiquato, in cui teorizzava l’inadeguatezza dei sentimenti umani nei confronti delle macchine, scrisse una lettera di sessanta pagine al pilota che sganciò la bomba su Hiroshima, il quale intervistato in tempi successivi dichiarò: “That was my job”. E così probabilmente risponderebbe oggi un operaio che lavora per una fabbrica che costruisce mine o mitragliatori o un manager che investe in fondi senza saper in quali imprese gli investimenti verranno poi utilizzati. Nella società della tecnica l’identità è rapportata al riconoscimento degli altri, riconoscimento che viene accordato a chi fa qualcosa in una determinata posizione. Chi non è riconosciuto in questa società, chi non riesce a fare qualcosa, ad avere successo, cade in una crisi di identità, in uno stato di psicoapatia, di depressione per inadeguatezza al quale cerca di sfuggire con l’suo di psicofarmaci, cocaina o azioni che gli regalino cinque minuti di celebrità-identità. Un'altra conseguenza del dominio della tecnica secondo Galimberti è il dominio della logica binaria che porta all’utilizzo di un’intelligenza convergente ossia di un’intelligenza che cerca la soluzione all’interno del problema dato, è la logica dei computer, dei test, dei telefonini, delle trasmissioni quiz prima del telegiornale, mentre è noto che la storia del pensiero, si pensi solo alla rivoluzione copernicana o alla scoperta della relatività è progredita sempre in termini di pensiero divergente. “Ma l’umanità gregge – ha concluso Galimberti – desidera l’animale capo e chi la pensa diversamente se ne va al manicomio”. Poi ha guardato il pubblico e in mancanza di qualcuno dell’organizzazione di Pordenonelegge che lo salutasse e ringraziasse o che desse spazio alle domande del pubblico si è alzato e tra gli applausi ha lasciato il palco da solo. Coda anche per uscire: al banco del ritiro-ombrelli quattro ragazzini in maglietta gialla faticavano non poco a consegnare ai viandanti i loro bastoni della pioggia ordinatamente infilati in armadi con scomparti numerati: il mio era nella feritoia s12. L’altra cosa che la tecnica tende ad eliminare è il contatto umano, prendi l’ombrello all’s12 non l’ombrello di Mario, l’utente numero 67 non la signora Tarantini, volo az 234 non l’aereo pilotato da Ignazio Salti. Quando si impedisce di immaginare un volto si nega l’uomo, e quando invece lo si mostra come in Facebook in realtà si continua a negarlo perché quello che importa non è l’incontro ma che egli sia nella rete.
p.s. Un sociofilosofo pop, Francesco Alberoni, scrive in un suo recente articolo dell'11 ottobre intitolato "Saremo (tutti) famosi nel villaggio di Facebook": "Tutti sono protagonisti, non c'è più la separazione fra chi guarda e chi è guardato. Nel gruppo, che può arrivare a migliaia di persone, si crea così un clima di amicizia, di simpatia di confidenza, di rispetto fiducioso e ciascuno si sente riconosciuto. È in questo mondo sotterraneo, che nessuno conosce e controlla, che maturano i nuovi rapporti sociali, i nuovi giudizi, i nuovi valori." Sembra che Alberoni non abbia mai usato Facebook, perché anche nei gruppi che contano cinquemila contatti i commenti o i rapporti veri non sono più di dieci, quindici. E non c'è nessun clima di amicizia, in FB è tutto molto autoreferenziale. I rapporti sociali non si creano in Facebook, FB può aiutare ad incontrare una persona che fa il tuo stesso lavoro, ma questo capita "semel in anno". I rapporti sociali, come sempre, si creano per vicinanza fisica, per appartenenza ad una struttura, per rapporti di convenienza-potere. Inoltre non è vero "che nessuno conosce e controlla questo mondo sotterraneo", tant'è che Mark Elliott Zuckerberg (il fondatore di FB) è diventato un billionaire vendendo informazioni di marketing alle multinazionali e inserzioni alle aziende. In buona sostanza mentre qualcuno passa e regala il suo tempo in FB mister Zuckerberg accumula miliardi. Quello di far soldi è un valore vecchio di secoli. Di nuovo mi pare ci sia una malintesa amicizia virtuale che in realtà ha un'unica funzione: essa ammortizza l'isolamento che deriva da una diffusa difficoltà ad avere rapporti sociali, perché la sfida d'incontrare l'altro-altro comporta un impegno e un'energia molto maggiori di un semplice click su FB. Isolamento che è collegato a quel senso di spaesamento che ogni individuo prova nel suo confrontarsi quotidiano con l'esistenza e al quale tenta di sottrarsi, spesso citando motti o frasi proprie o di autori famosi riguardanti il senso della vita, l'amore, l'amicizia, che hanno lo scopo di rendere evidente a sé e agli altri che "è proprio così", "bello l'ho sempre pensato anch'io", un modo di rassicurarsi, di dirsi che esistono delle verità (brevi e lapidarie, pret a porter) e che quindi qualcosa della vita l'abbiamo capito anche noi. Facebook è l'oppio dei nuovi popoli digitali.


Nelle foto: Maurizio Ferraris e Silvano Petrosino presentati da Eliana Villalta; Umberto Galimberti

venerdì 17 settembre 2010

Un libro

Un libro si produce, avvenimento minuscolo, piccolo oggetto maneggevole. È da questo momento preso in un gioco senza posa di ripetizioni; i suoi doppi, attorno e lontano da lui, si moltiplicano; ciascun lettore gli dà, per un istante, un corpo impalpabile e unico; frammenti circolano, che sono fatti passare per lui, che si dice lo contengano quasi tutto e nei quali alla fine gli capita di trovar rifugio.; i commenti lo raddoppiano: altri discorsi in cui deve infine apparire lui stesso, riconoscere le cose che ha rifiutato di dire, liberarsi di quel che, rumorosamente, fingeva di essere. La riedizione in un altro tempo, in un altro luogo, è daccapo uno di questi doppi: né completamente illusione né completamente identità. (…) Mi piacerebbe che un libro, almeno dalla parte di chi l’ha fatto, non fosse nient’altro che le frasi con cui è fatto; che non si sdoppiasse in quel primo simulacro di sé stesso che è una prefazione, e che pretenda di imporre la propria legge a tutti coloro che negli anni a venire potranno essere formati da lui. Vorrei che questo oggetto-avvenimento, quasi impercettibile fra tanti altri, si ricopiasse, si frammentasse, si ripetesse, si simulasse, si raddoppiasse, sparisse infine senza che la persona cui è capitato di produrlo possa mai rivendicare il diritto di esserne il maestro, di imporre quel che voleva dire, né di dire quel che doveva essere. In breve, mi piacerebbe che un libro non si assegnasse da sé quello statuto di testo cui la pedagogia o la critica sapranno ricondurlo; ma che avesse la scioltezza di presentarsi come discorso: battaglia e, insieme, arma, strategia e urto, lotta e trofeo o ferita, congiunture e vestigia, incontro irregolare e scena ripetibile.
Michel Foucault, liberamente dalla prefazione a Storia della Follia

giovedì 16 settembre 2010

La fortuna

La fortuna, per Giordano Bruno, è parte di quella "ruota del tempo" che, modificando incessantemente le situazioni umane, non smette mai di girare, trascorrendo da una condizione all'altra secondo un ritmo che coincide con quello, inesausto, della vita. L'eterna mutazione delle cose non può essere controllata né, tantomeno, bloccata dalla ragione o dalla volontà. Al massimo può essere utilizzata dall'uomo, assecondandone la direzione, per trovare un ritmo adeguato alla propria natura e alla propria qualità. In questo modo viene meno quell'idea di soggetto padrone dell'esperienza e garante della certezza del sapere introdotta dalla filosofia cartesiana. Mentre questa separa il soggetto del sapere dal suo oggetto, per Bruno il soggetto fa tutt'uno col mondo che conosce e ne è modificato secondo forme che non è possibile prevedere in anticipo.
Roberto Esposito

Protecting nature

“Protecting nature or saving creation? Ecological conflict and religious passion”, dialogo nel chiostro della della sala die Cipressi di San Giorgio Maggiore insieme a Mathew Engelke, antropologo, Eric Geoffrey, islamista, Isabella Jurasz, esperta di patristica siriana, Bruno Latour, filosofo, Ignazio Musu, economista, Michael Shellenberger and Ted Nordhaus del Breakthrough Institute, Anne Marie Reijnen, teologa protestante, Simon Schaffer, storico della scienza, Elizabeth Theokritoff, teologa ortodossa, George Theokritoff, paleontologo, Andrea Vicini, teologo cattolico, Eduardo Viveiros de Castro, antropologo e al segretario generale della Fondazione Pasquale Gagliardi. "Alla base del Dialogo ( 14-16 settembre) vi è la diffusa consapevolezza che la gamma di passioni mobilitate dagli ecologisti finora è insufficiente, per livello ed intensità, al compito immane che ha oggi l’umanità riguardo al destino della Terra. Solo la religione sembra essere riuscita, in passato, a mobilitare emozioni ed energie trasformative che hanno prodotto cambiamenti radicali di portata paragonabile alle trasformazioni oggi necessarie. Tuttavia, non è chiaro se un simile livello di energia sia ancora disponibile e sia utilizzabile a questo fine. L’idea è quindi quella di prendere in esame il rapporto tra ecologia e teologia, tentando di esplorare nuovi percorsi in un ambito che rischia facilmente di diventare un accumulo di buoni sentimenti. Due ragioni possono spiegare le relative sterilità di molti dibattiti sulla congiunzione tra eco-logia e teo-logia. In primo luogo, troppo spesso il dibattito è basato su concezioni riduttive e superate della scienza e della tecnica, e su nozioni superficiali, sovente distorte, della religione, in specie di quella cristiana. Riaprire il dibattito sul rapporto tra scienza e fede – un tema notoriamente molto abusato – implica esplorare la tensione tra Natura e Creazione, rifacendosi alle antiche teologie della Creazione elaborate dai primi Padri della Chiesa, ma anche alle diverse tradizioni della teologia naturale. In secondo luogo, quello che viene solitamente del tutto trascurato nell’analisi tra ecologia e teologia è il ruolo dei conflitti e delle passioni. Molti autori sembrano supporre che i due ambiti siano naturalmente e armoniosamente legati, laddove sfortunatamente né la natura né la creazione sono prive di dimensioni drasticamente conflittuali. La questione chiave è dunque forse quella di mobilitare le nozioni, i rituali e le cosmologie che caratterizzano alcune tradizioni religiose, a patto tuttavia di non ignorare i conflitti sottesi al dibattito ecologico e il ruolo essenziale della politica: senza una adeguata considerazione dei conflitti nessuna ecologia politica è possibile."
Il pubblico presente all'incontro non superava le dieci persone. Il mondo accademico, gli studenti e le persone interessate a tali argomenti forse pensano che l'isola da San Giorgio debba essere raggiunta a nuoto.